di Odin Teatret
regia di Eugenio Barba
In uno scritto dedicato al suo ultimo spettacolo, Eugenio Barba parla della speranza come di una nave che coraggiosamente decide di lasciarsi guidare dai ghiacci in un cammino tortuoso e non prevedibile, dove il rischio di essere travolti e per sempre seppelliti è una possibilità da tenere in conto. “Siamo tutti in una stessa barca”, penso mentre ci stringiamo per far posto tra le gradinate alle persone che condividono questo piccolo viaggio all’interno de La vita cronica.
La generosità che contraddistingue da mezzo secolo l’Odin Teatret è nota soprattutto per le esperienze di condivisione con culture teatrali anche molto distanti tra loro per tradizioni e geografia. Una generosità che, anche questa volta, si riflette non soltanto nella ricchezza del testo, che parla diverse lingue rimanendo in bilico tra incomprensione e comunicabilità, o nella ferma volontà di far si che questa permanenza in Italia per il cinquantesimo anniversario della compagnia non si riduca alla semplice presentazione dello spettacolo sviluppando in una fitta rete d’incontri, visioni, collaborazioni.
Questa generosità è un “atto incarnato” anche nella concezione della scena de La vita cronica: posti su due gradinate l’una di fronte l’altra, gli spettatori segneranno il confine dell’azione dei personaggi, che stanno al centro. Non nuovo a questo genere di spazio scenico, l’Odin sembra invitarci alla possibilità di spostamento di sguardo non soltanto verso l’azione ma anche verso chi sta oltre noi, verso altri corpi, altri piedi, illuminati da un led rosso. Sempre sulla scena, riaffiora l’idea d’imbarcazione come spazio fisico anche grazie ai teli trascinati quasi fossero delle vele e all’insieme di cantinelle poste al centro dello spazio, che paiono un traliccio e una zattera.
Sulla nostra “nave immaginaria”, in cui convergono tempi e spazi altri (siamo in un ipotetico 2031, nel quale vari personaggi interagiscono tra loro trovandosi in paesi differenti), saliranno a bordo alcuni protagonisti. La messa in scena è frammentaria, ma la narrazione non viene meno. Le storie private s’innescano parallele, ciascuno vive apparentemente in solitudine rispetto agli altri, ma qualcosa di più forte li lega. C’è un ragazzo colombiano che nel viaggio alla ricerca di sua padre incontrerà una vedova basca, una madonna nera, un avvocato danese, una casalinga rumena, una rifugiata cecena, mercenari, cantanti e musicisti, reclutati tutti insieme perché tutti hanno una radice comune: hanno perso qualcosa d’importante che temono non possa esser più ritrovata, hanno perso la speranza. Diverse immagini si affacciano alla mente di chi ricorda, immagini che parlano di una perdita di valori, di credenze, della vita stessa, momenti in cui, volontariamente, ci si benda, cioè, metaforicamente, si smette di sperare.
Segnati da una guerra che sembra più una condizione esistenziale che una contingenza storica, i personaggi raccontano di vivere in un posto senza “nessuna misericordia, nessuna pietà”. In questo stallo esistenziale, anche gli oggetti mutano segno: una teca di cristallo è tavola imbandita, panchina, vasca, bara; sotto il cellophan l’abito a festa è curato, protetto, ma è anche dismesso. Attraverso la reiterazione anche le azioni indicano vie diverse: la pioggia di monete e carte porta violenza, sprechi, nostalgia, perfino amore. Piange la vedova ed è un canto che entra nelle ossa, che smuove e che ti viene voglia di seguire; canticchia a bocca chiusa la rifugiata e sembra quasi il suo un urlo d’aiuto, morsa da una mano che non sembra sua, che serra la bocca e che chiede a se stessa di non ricordare. “I wanna die easy when I die”, canta la casalinga dondolandosi sulle celesti ali d’angelo, si distingue un Inno alla gioia, ma è un suono distorto; suona la violinista alla scoperta di ciò che si cela dietro la porta. Con una presenza scenica che va quasi oltre l’interpretazione, scavata e tirata fuori da un lavoro di costante ricerca e messa in discussione dei propri risultati, ciascun attore incarna la propria condizione, disperata, innocente, allegra.
Tutto sembra ineluttabilmente deciso: più si conosce più sembra che il futuro vacilli, si parla di promesse costruendo castello di carta. Tuttavia in sottofondo si sente il gocciolio dell’acqua, quella reale lastra di ghiaccio appesa a un gancio da macellaio che lentamente si scioglie. Anche quando tutto è silenzio, quel suono rimane come unica certezza che la vita va avanti, la nave può continuare il suo corso, qualcosa ostinatamente ritorna a far sperare strappando il sacco di plastica chiuso sul volto per ritornare a respirare. Era la casalinga rumena col vizio del suicidio e scarpette di vernice rossa, Roberta Carreri, che in una riflessione quasi alla fine dei quattro anni di gestazione dello spettacolo, afferma che “la vita è più forte del suo bisogno di morire. È questa la vita cronica?”.
Viviana Raciti