Allo scoccare delle otto di sera cala il silenzio su Kanal Brussels, l’ex garage Citroën di Bruxelles destinato a trasformarsi nei prossimi mesi in santuario dell’arte contemporanea come succursale belga del Centre Pompidou. Tutte le installazioni sonore disseminate nel mastodontico edificio si spengono simultaneamente; muore persino il ronzio del riscaldamento: ma non si tratta semplicemente della fine della giornata, qualcosa sta per accadere, il rito sta per avere inizio.
Ecco infatti sopraggiungere il pubblico, che, quasi timidamente, fluisce all’interno di uno degli hangar di Kanal, una rimessa disseminata di automobili coperte da teli bianchi, che conferiscono all’ambiente un’atmosfera ovattata, quasi polverosa. Le persone si spargono nello spazio senza certezze: non ci sono infatti né palco né platea, mentre alle loro spalle, nel buio dicembrino, sfavillano le luci della città alle porte di Molenbeek. Poi, quasi senza preavviso, qualcosa inizia. Dal fondo dell’hangar muovono i primi passi verso il pubblico cinque giganti di origine africana: tutti alti più di due metri, avanzano imponenti, nei loro abiti bianchi, verso gli spettatori. Candide come il resto dell’outfit liturgico ai loro piedi spiccano delle scarpe col tacco, unico particolare disarmonico nella mise sacrale che interrompe bruscamente la loro ostentata virilità.
Sono cinque sacerdoti, cinque fratelli giunti per annunciare un nuovo inizio attraverso una messa celebrata in un tempio post-apocalittico di vetro e cemento. Ed è proprio quest’ultimo materiale, che con il suo avvento diede il colpo di grazia alle manieristiche pratiche dell’art déco, a rivelarsi oggettivo-correlativo dell’intero rituale. Emblema di un modus costruendi, a sua volta superato, dichiara la necessità di un rinnovamento, di un rito di passaggio che porti verso un cambio di segno, anche spaziale.
La muta liturgia dei sacerdoti alterna l’utilizzo di monili d’oro, simboli di una nuova fertilità e perfezione (un cerchio, un ramo) a movenze vicine all’immaginario della guerriglia urbana. È così che gli oggetti di scena si trasformano in barricate; i “monaci” in potenziali sovversivi, ma l’aggressività dei loro gesti è presto neutralizzata dalla lentezza con cui sono portati a compimento. Le loro azioni si evidenziano piuttosto per la perfetta sincronia, quasi che i cinque siano animati da uno stesso spirito divino! In realtà più che un soffio immateriale, l’impeccabile gestualità è frutto di un lavoro di input in cuffia innescati dalla regia. Il risultato è in ogni caso ipnotico: un’estasi visiva supportata dalla progettazione chirurgica del lighting design che accentua, con una costellazione di neon, la dimensione distopica della scena.
Al termine di un’estenuante preparazione, uno dei cinque sacerdoti si allontana dal gruppo per annunciare il messaggio: “l’arte contemporanea ha fallito, i tempi sono maturi per un glorioso ritorno dell’artigianato. Al bando dunque la sintesi e il pensiero: non sarà la concettualizzazione a salvarci, ma la pratica del fare!”.
Il fatto che dietro a questa profezia ci sia Romeo Castellucci ci porta a vivere l’annuncio come un paradosso o una provocazione calcolata: se è vero che in Occidente la radice dell’evento teatrale va ricercata attraverso il canale della materialità e del perfezionamento del dettaglio, allora forse questo manifesto di una Vita Nuova è una netta presa di posizione, forse un monito, nei confronti della direzione autoreferenziale e priva di cura verso cui tende parte del teatro contemporaneo (la parte che Peter Brook definirebbe “mortale”).
Eppure, qualche smagliatura la si trova anche nel lavoro firmato dall’artista della Societas. Se infatti – come di consueto negli spettacoli di Castellucci – il performer non è scelto tanto per le sue capacità “d’accademia” quanto per il suo potere evocativo (per Castellucci l’attore è catalizzatore di significato), l’enunciazione del messaggio profetico in bocca a un interprete non professionista risulta un passaggio piuttosto delicato. La recitazione accusa allora, a tratti, un percettibile sforzo mnemonico che affievolisce la potenza delle parole. D’altro canto, però, la scelta di performer non professionisti avalla pienamente l’autenticità del rito nella fase di muta preparazione: la loro concentrazione va oltre la semplice interpretazione e magnetizza lo sguardo del pubblico.
L’interesse di Castellucci per la forza evocativa del simbolo si manifesta pienamente nella Vita Nuova, quanto nelle altre due opere che compongono il trittico bruxellois portato in scena nelle stesse settimane nella capitale belga: Il Flauto Magico in scena a La Monnaie e l’installazione History of Oil Painting, stanza-memoriale interna al Bozar e dedicata al rapporto modella-artista, al cui centro è esposta, come reliquia sacra, una treccia di capelli ceduta da una prostituta allo stesso Castellucci in cambio di denaro. A differenza delle altre due però, La Vita Nuova è anche investita di un’importante responsabilità: concludere de facto, e non solo simbolicamente un’epoca storica dell’edificio nel quale è ospitata. La performance segna infatti l’evento di chiusura di Kanal Brussels che è ora in ristrutturazione in vista della futura apertura come Centre Pompidou, in calendario per il 2022. Quale migliore augurio, per questo centro culturale, che la celebrazione di una rinascita?
Emanuela Gussoni
La Vita Nuova
di Romeo Castellucci
Ideazione e regia: Romeo Castellucci
Testo: Claudia Castellucci
Musica: Scott Gibbons
Con: Sedrick Amisi Matala, Abdoulay Djire, Siegfried Eyidi Dikongo, Olivier Kalambayi, Mutshita
Mbaye Thiongane
Assistente alla regia: Filippo Ferraresi
Sculture di scena ed automazioni: Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso – Plastikart studio
Costumi: Grazia Bagnaresi
Visto a Kanal Brussel di Bruxelles_ l’1 dicembre 2018