di e con Ascanio Celestini
visto al Teatro della Società di Lecco _ 28 novembre 2015
Cassette di plastica sparse o accatastate a disegnare i contorni del magazzino di un supermercato. Forse pezzi di un mondo disordinato e pronto a implodere. Alcune lampade posate a terra rischiarano appena le miserie dell’umanità narrata. In fondo, dietro un panno rosso che scorre come il siparietto di un teatrino di burattini, si intravede un’ombra. Si spalanca su questo scenario spoglio la narrazione di Ascanio Celestini, capace come sempre di illuminare con la parola le ferite nascoste della società. Dopo l’esordio al RomaeuropaFestival, lo spettacolo Laika ha toccato il Teatro della Società di Lecco, per inaugurare la stagione di prosa.
Il microcosmo delle storie trova il suo baricentro attorno a un immaginario bancone di un bar. Qui un narratore improvvisato comincia il suo racconto agli avventori, a noi e al misterioso Pietro, il musicista Gianluca Casadei, che accompagna il monologo con la sua fisarmonica, mentre Alba Rohrwacher gli presta la sua voce (registrata e fuoricampo) in alcuni momenti di snodo. Il fiume di parole si dipana sul filo disordinato di un’oralità prorompente, in balìa di impervie acrobazie associative: dettagli dapprima opachi trovano poi la coerenza di un senso pieno, fino a tratteggiare lo spaccato di una periferia romana degradata, dove si intrecciano le vite di alcune donne (la Vecchia, la Prostituta, la Signora “con la testa impicciata”), un barbone ed emigrati-facchini. Non occorre ricostruire la mappa precisa degli eventi e personaggi, basta abbandonarsi al flusso del logos, con il suo mimetismo del parlato, le iterazioni, l’ironia dolce-amara.
La cruda realtà di miseria e sopraffazione lampeggia di squarci surreali e bellissimi e in questo labirinto verbale sapientemente studiato, spunta Dio ad ogni angolo: è il Creatore che punisce Stephen Hawking per la teoria rivoluzionaria del Big Bang e poi per compiere i miracoli, come un grande Burocrate, si affida al suo esercito di funzionari, i Santi. Un Dio che forse ha l’Alzheimer perché si scorda degli uomini e non impedisce il male, né vede il dolore dei suoi poveri figli. Il narratore ingenuo e sprovveduto ci sollecita al riso e alla riflessione, e il suo tono si impenna in improvvisi slanci di forte impatto, come nella denuncia-parafrasi del Padre Nostro: “Almeno un giorno al mese, fai il Dio dei poveri, e almeno un giorno, liberaci o Signore dal male”. Ma qual è l’identità del narratore? È un povero cristo un po’ tocco e un po’ ubriaco? È un cieco vero o finto, un Edipo con la vista più acuta di tutti, che abita davanti al parcheggio del supermercato e sa tutto quello che succede? O forse è Gesù, uomo tra gli uomini, tornato insieme all’apostolo Pietro in questa terra desolata e senza dio, non per assolvere dal peccato, ma per mostrare i miracoli di cui sono capaci gli ultimi, condividerne i dolori e perfino le “botte da orbi”?
Laika è un oratorio civile che invita ad aprire gli occhi sul sottobosco di un’umanità che di solito preferiamo non guardare. E non solo, perché la riflessione si allarga. Resta impresso l’incipit folgorante, che diventa un refrain: “La volta del cielo sta cadendo”, un’apocalisse calcolata e prevista dagli scienziati, ma evidente a tutti. Macro e micro continuano a intrecciarsi in una danza mirabolante: il cosmo sta per implodere, le distanze di accorceranno e tutto l’universo potrà essere contenuto nel monolocale del cieco-Gesù, che sogna di attraversare il mondo camminando sul mare. Quel “mare comincia a Ostia” ma comincia dappertutto, perché tutti siamo uguali. Forse alla fine tornerà anche Laika, la cagnetta randagia che il regime sovietico mandò in orbita nel novembre 1957. A lei si ispira il titolo dello spettacolo. Laika, “colei che abbaia”, la vittima innocente immolata sull’altare del progresso, sottratta alla sua vita “barbona” nei vicoli di Mosca per viaggiare nello spazio. Lassù, vicino a quel Dio che forse non esiste. Laika, ululato “laico” del grande affabulatore Ascanio che crede ancora nell’Uomo. Prima che la volta del cielo ci cada addosso.
Gilda Tentorio