Un fragore spacca l’oscurità della scena, frantumandola in uno scroscio di luci stroboscopiche. Torna il buio, presto trafitto da tre fari di luce caldissima ad avvolgere, flebili, delle creature accovacciate. Umane, forse, o non ancora: con piccoli movimenti a scatti tentano di frantumare il bozzolo in cui sembrano racchiuse, promettendo metamorfosi. In sottofondo, un tappeto di suoni nebulosi.
Allo schiudersi dell’umano sono dedicati i primissimi momenti dello spettacolo Lascaux, firmato dalla danzatrice e coreografa Stefania Ballone, artista associata del festival, e dai compositori Vittorio Montalti e Giulio Colangelo, ispirati, come si legge nel foglio di sala, dal saggio di Georges Bataille sulle grotte dipinte 20000 anni fa, a Lascaux, dall’appena nato homo sapiens. È ad allora che risale, secondo il filosofo francese, la nascita dell’arte.
Il riferimento al testo di Bataille si traduce, in modo implicito, nella ricerca dell’atmosfera atemporale delle grotte dove i primi uomini iniziarono a rappresentare quello che vedevano e sentivano. Preliminare all’incredibile sforzo di astrazione da cui originò la pittura fu lo sviluppo, da parte dei nostri antenati, della capacità di percepire e percepirsi. È proprio su questa presa di coscienza della corporeità, colta nella condizione liminale tra animale e uomo, che la coreografia di Ballone, dialogando in filigrana con le pagine di Bataille, sembra insistere.
Se il sottotitolo della trentasettesima edizione di MILANoLTRE è “Back to the future”, il lavoro di Ballone, Montalti e Colangelo, ultimo spettacolo della rassegna, presentato in prima nazionale, invoca, dunque, viceversa, un ritorno al passato più remoto.
Intorno ai tre danzatori – Ballone, Margherita Pellerano, Edoardo Brovardi – la scena è vuota. A scolpirla, per ogni lato, ci sono quattro neon a luce fredda che fanno parte dell’installazione musicale: al momento dell’accensione, spesso intermittente, producono un suono sordo, metallico, esplosivo. Il contrasto tra il calore della luce dei fari e il freddo di quello dei neon riproduce l’illuminazione tipica delle caverne, dove le luci calde proteggono i graffiti e quelle fredde indicano la strada ai visitatori.
Il dialogo sinestetico tra neon e suoni elettronici – orchestrato dal vivo, sul momento, da Montalti e Colangelo, presenti in scena, nelle profondità del palco – scandisce la narrazione dello spettacolo, che procede per quadri, marcati da lampi visivi e sonori, spesso anche violenti per i sensi degli spettatori.
Ecco allora che, bagliore dopo bagliore, le tre creature sperimentano la verticalità della posizione eretta, in una tensione continua tra elevazione e caduta, tra allungamento degli arti fino al cielo e contrazione verso il suolo, interpretando magistralmente una coreografia complessa che richiama, in più punti, il mondo del balletto classico da cui Ballone, danzatrice del Teatro alla Scala, proviene.
I tre performer esplorano non solo le libertà del movimento, ma anche la superficie della propria pelle, fasciata da costumi aderenti su cui sono raffigurati i grandi tori disegnati ne grotte di Lascaux. Grazie a questa scelta estetica, è come se i danzatori incarnassero i graffiti e, allo stesso tempo, gli uomini che li incisero, restituendo l’idea di come sia impossibile distinguere, in quel contesto, animale e uomo, oggetto rappresentato e artefici della rappresentazione. Il passaggio dalla dimensione bestiale a quella umana, infatti, in Lascaux, sembra non essere definitivo: nelle sequenze più oscure e silenziose i fari caldi, illuminando solo certe porzioni dei corpi dei danzatori, disegnano creature ibride e forme geometriche indecifrabili.
Se gli spettatori non possono comprendere questi esseri e i simboli che i loro corpi compongono, possono però calarsi nel loro modo di percepirsi e percepire l’atmosfera che li circonda. Tra di loro, infatti, i tre danzatori non interagiscono a sguardi o a parole, bensì attraverso impulsi corporei che, come scosse, si trasmettono da uno all’altra, reagendo alle sollecitazioni uditive che sembrano provenire dall’esterno. Il crepitio delle foglie e del fuoco, l’ululato del vento, il rombo di una tempesta in avvicinamento – evocati dall’utilizzo di suoni granulari e di bordoni – raccontano un mondo minaccioso da cui proteggersi, trovando rifugio nella grotta. Il vuoto dello spazio sembra amplificare l’angoscia e la paura provate interiormente dalle tre creature. Queste emozioni traspaiono soprattutto dalla musica, nei momenti in cui i loop di suoni si affastellano gli uni sugli altri, ritmicamente concitati.
La sofisticatezza dei dispositivi acustici e visivi sembra ricordarci che Lascaux non può che essere una rievocazione artificiale: la distanza temporale che ci separa dalla spinta creatrice dei primi pittori è impercorribile; il “miracolo di Lascaux”, celebrato da Bataille, rimane, come tutti i miracoli, un mistero. Ma è proprio dalla presa d’atto di questa estraneità irriducibile che può scaturire l’incantesimo.
Ginevra Portalupi Papa
Lascaux
coreografia Stefania Ballone
musica Vittorio Montalti, Giulio Colangelo
interpreti Stefania Ballone, Margherita Pellerano, Edoardo Brovardi
disegno luci Valerio Tiberi
disegno luci associato Alessandro Manni
live electronics e luci interattive Vittorio Montalti e Giulio Colangelo
costumi di Riccardo Sgaramella realizzati da Matteo Tolve
assistente alle prove Christian Fagetti
assistente di produzione Beatrice Capussella
produzione Associazione Fulcro e MILANoLTRE Festival
coproduzione Associazione Ariella Vidach – AiEP
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview