Da poco è Presidente dell’Associazione C.Re.S.Co (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea), nata nel 2010. Quali sono le sfide e le gratificazioni nell’aver dato luce a questo progetto? Qual è la vostra prospettiva di lavoro e quali i focus specifici sulle realtà contemporanee?
Quest’anno C.Re.S.Co compie 10 anni e avevamo immaginato di celebrare un passaggio simbolico così importante con diversi appuntamenti diffusi durante tutti i mesi del 2020 per arrivare a una grande festa in occasione dell’assemblea nazionale… le cose non sono andate esattamente come le avevamo immaginate, ma non si può negare che questo sia stato un anno di straordinario impegno e crescita per il coordinamento.
Oggi circa 200 imprese e lavoratori sono parte attiva di un arcipelago che riunisce soggetti tanto diversi e che, grazie a una composizione così eterogenea, porta C.Re.S.Co ad esprimere una visione organica, in costante ricerca della sintesi migliore per il benessere dell’intero comparto.
Quando sono diventata presidente di C.Re.S.Co nell’ottobre 2019, dopo 4 anni meravigliosi all’interno del direttivo, non avrei mai pensato di ricoprire questo ruolo nel momento più difficile della storia recente del nostro Paese: spesso ho avuto paura di non farcela a reggere pressioni così forti e una rabbia sociale che montava giorno dopo giorno, ma far parte di C.Re.S.Co è stata l’esperienza formativa più importante nel mio modo di fare teatro oggi e da questa consapevolezza sono derivate le parole e gli atti di questi tempo.
Chi ha fondato C.Re.S.Co. 10 anni fa ha avuto l’ardire e il coraggio di mettere assieme non solo profili professionali e visioni molto diverse, ma soprattutto ha saputo riunire in un solo organismo gli aspetti poetici e politici del nostro mestiere, creando un codice etico per il settore. Da allora la strada è stata lunga, se dovessi riassumere in poche parole quali siano state le sfide e le gratificazioni maggiori di questo percorso penserei senza dubbio alla credibilità che C.Re.S.Co oggi si è guadagnata, alla capacità di interlocuzione politica e all’attenzione verso i processi artistici, aspetti che hanno fatto del coordinamento un punto di riferimento per molti durante la pandemia.
Abbiamo lavorato quotidianamente per studiare i provvedimenti messi in atto dalla politica e per suggerire strade nuove, convinti che dalle azioni di oggi si possa disegnare lo spettacolo dal vivo di domani. La nostra prospettiva risponde quindi a una visione di lungo termine, ritenendo sia giunto il termine di una politica lungimirante e non più emergenziale (qui la petizione per una politica di sistema).
Ci stiamo dedicando a una molteplicità di azioni attraverso i 7 tavoli di lavoro che sono il motore del coordinamento e che permettono al direttivo di condividere in maniera quanto più democratica ogni posizione, pensiero e attività. Le priorità di C.Re.S.Co per il 2021 riguardano, da un punto di vista politico, lo studio (nato nel 2017) sui decreti attuativi per il Codice dello Spettacolo, perché questo sistema possa avere finalmente un quadro normativo organico e innovativo, a cominciare dal DM 2022-24; il monitoraggio degli impatti delle misure di ristoro messe in campo finora; la definizione di funzioni chiare per tutti i soggetti dello spettacolo; il ruolo fondamentale della formazione teatrale e il rapporto tra teatro e scuola; le proposte concrete per una riforma radicale del welfare; lo studio delle buone pratiche legate alla sostenibilità del nostro mestiere, oggi più che mai; un costante rapporto con i network internazionali e la mappatura delle istituzioni che si occupano di internazionalizzazione della scena, solo per fare qualche esempio. Dal punto di vista più prettamente poetico, continuerà – rinnovandosi – il progetto “Lo stato dell’arte” che ha dato modo ad artisti, critici e operatori di regalarsi un tempo sospeso e una riflessione profonda dedicata alla creazione contemporanea. Merita un discorso a parte il digitale… magari torneremo a parlarne nel prossimo futuro.
Stratagemmi e Fattoria Vittadini con Silvia Albanese e Daniele Turconi hanno inaugurato nel 2020 il progetto “AAA35” che si propone di riflettere con metodo intorno ai protagonisti e ai meccanismi che muovono la scena teatrale italiana, con uno sguardo particolare agli artisti, operatori, autori e professionisti under 35. A suo avviso quali sono stati, negli ultimi anni, gli interventi più significativi dedicati a questa “categoria” di artisti?
Sicuramente la possibilità per gli artisti under 35 di accedere al FUS con parametri ridotti è stata un’opportunità importante, difesa in primis da C.Re.S.Co nel processo che ha portato alla scrittura del DM 1/07/2014. Questo, ahimè, non è bastato a dare slancio alle realtà più giovani: tutti conosciamo infatti le difficoltà che le imprese hanno incontrato nel passaggio da un triennio all’altro come under 35. Non intendo entrare nei dettagli tecnici di cui si è molto discusso (aumento dei parametri richiesti a fronte di un contributo spesso inadeguato), ma credo che il tema centrale sia la creazione di condizioni atte a tutelare il ciclo di vita delle realtà finanziate, affinché il sistema non imploda su se stesso.
Certamente le residenze sono state un importante elemento di rinnovamento della scena e hanno permesso a compagnie giovani di avere uno spazio e un tempo idoneo per la creazione: il problema è quel che accade dopo un attraversamento artistico. Se la filiera dello spettacolo dal vivo non sviluppa maggiori connessioni, determinate dalle reciproche funzioni, il processo di creazione sostenuto dalle residenze rischia di bloccarsi, in quanto gli altri soggetti del sistema che dovrebbero produrre e far circuitare le opere non riescono ad intercettare pienamente le novità che si generano durante gli attraversamenti di artisti giovani (e non solo).
Ad esempio in Puglia, con il TRAC (Centro di residenza pugliese), abbiamo tentato di mettere a sistema le relazioni della filiera regionale, connettendo il Centro con il Teatro Pubblico Pugliese (circuito multidisciplinare) e con i Teatri di Bari (Tric), ispirati dal modello toscano del progetto “Toscana terra accogliente”.
Un ruolo decisivo nel sostegno alle giovani generazioni è stato svolto anche dai festival, per vocazione legati all’innovazione della scena e al contemporaneo… sarà un caso che a prendersi cura dei più giovani siano stati i soggetti più fragili del sistema?
Auguro al futuro del teatro italiano di connettersi maggiormente, affinché davvero si possa ragionare in termini di filiera produttiva e impedire che vengano rapidamente bruciate opportunità e competenze solo perché a un certo punto scocca la mezzanotte della nostra generazione, che come Cenerentola può vedere trasformata la propria carrozza in zucca all’alba dei 36 anni.
Il punto, in effetti, sembra proprio essere quello del passaggio dalla condizione di under 35 alla categoria più anziana. Cosa pensa di questo confine all’apparenza solo formale ma allo stesso tempo in grado di influenzare percorsi e scelte artistiche?
Viviamo in un sistema che si nutre delle giovani generazioni perché contrattualizzare personale under 35 rappresenta una premialità, ma ahimè questo non basta a creare le condizioni per una crescita reale delle giovani generazioni, che può realizzarsi solo attraverso un costante passaggio di competenze tra maestro e allievo. La nostra storia, da sempre, si è fondata sul passaggio intergenerazionale di conoscenze e competenze: dalle botteghe artigiane alla carriera accademica, in tutti i mestieri è previsto il tempo della formazione e il tempo della responsabilità.
In Italia le direzioni artistiche dei teatri sono in mano per lo più a over 60, quando sarà possibile vedere alla guida di un grande teatro un giovane operatore culturale? Viaggiando per festival europei ho incontrato molti direttori giovani, così mi chiedo: abbiamo un problema di competenze o di mentalità? Non ho una risposta, credo che la mia generazione debba indubbiamente studiare di più, se vuole prendersi ciò che reclama. Allo stesso tempo credo che vada rivisto il criterio di nomine dei teatri: quali sono i parametri e i criteri di selezione (spesso non ci sono bandi pubblici ma nomine dirette) e dove sono le donne, oltre agli under 35? Temo che la soluzione non si possa trovare solo nei bandi, ma che sia necessario un radicale cambiamento di relazioni e connessioni all’interno del sistema. Chi non ha la pazienza di aspettare che venga il proprio turno spesso cambia mestiere, stanco di una precarietà non solo economica ma anche strutturale: funzioni, ruoli, responsabilità troppo spesso sono negate a chi non ha un’esperienza tale da poter competere con le generazioni più adulte…. ma quando sperimentarsi se il sistema è ingessato?
Sicuramente una bella opportunità è stata quella permessa da “Funder 35”, che nasce da una fondazione privata come Cariplo. Forse occorre mettere a fuoco anche il rapporto tra pubblico e privato in un Paese che deve necessariamente rinnovarsi: occorrono occasioni di studio e sperimentazione, bisogna riconoscere la possibilità dell’errore e fare spazio perché, come ci racconta anche Lucrezio nel De rerum natura, in assenza di clinamen (ovvero di quella «declinazione» che fa deviare gli atomi dalla loro caduta verticale provocando tra loro gli urti che portano alla formazione dei corpi) non esiste deviazione possibile e non si riescono a generare energie nuove che proprio dalla scontro fanno nascere la vita.
In fondo, è tutto già scritto, ci aveva pensato già la fisica epicurea… dobbiamo solo imparare a lasciare spazio perché qualcosa possa trasformarsi. Se non ora, quando?
Di recente ha espresso il desiderio di realizzare una “Residenza per pensatori” a Udine, a villa Manin, per ripensare il Sistema teatro. A fronte della situazione di oggi, qual è per lei l’urgenza di questa residenza? Quali le sembrano essere, come operatrice teatrale, gli aspetti di maggiore criticità su cui ora dovremmo intervenire in modo attivo?
Il desiderio di una residenza di puro pensiero sul futuro dello spettacolo dal vivo era nata già due anni fa, poi durante un aperitivo a Bologna con Rita Maffei (direttrice artistica del CSS di Udine) questo sogno si è avvicinato alla realtà: il CSS ci ospiterà, non appena sarà possibile, a Villa Manin per due giorni in cui, dimenticando per una breve parentesi tutto quello che sappiamo dell’attuale sistema di finanziamento pubblico, proveremo a disegnare un’utopia necessaria a un cambiamento radicale di paradigma. La pandemia ha reso ancora più evidenti le difficoltà in cui versa il settore, e per questo crediamo oggi che una residenza per ripensare tutto sia assolutamente necessaria, anzi urgente. Immaginiamo artisti, organizzatori, filosofi, critici, direttori di teatro discutere, per 48 ore, del mondo che vorremmo assieme alla gente del posto… immaginiamo che il pubblico, o meglio i pubblici, siano coinvolti nella riflessione e che gli spunti emersi possano permettere di intravedere una nuova strada, un sentiero che non saremo mai in grado di scoprire se percorriamo ogni giorno lo stesso percorso. I più grandi cambiamenti sono nati dalle difficoltà, non è questo il tempo in cui possiamo perdere l’occasione di ripensarci e ripensare il nostro rapporto con i cittadini e le cittadine di questo Paese. Abbiamo in questi mesi sentito parlare di attività essenziali o meno: il teatro, la danza, lo sono? E se sì, per chi? A mio avviso, oggi più che mai è necessario pensare a quale sarà la nuova normalità che incontreremo quando tutto questo finirà, per non rischiare di aspettare invano che tutto torni com’era e quindi far sì che questo tempo sia stato solo una sciagura e non un’occasione. Occorre una riflessione sincera, ad esempio, sulla domanda e non solo sull’offerta culturale, così come un ripensamento delle proposte che incontreranno soprattutto le nuove generazioni, che più di tutte stanno soffrendo il distanziamento sociale. Occorre definire nuove regole per imprese e lavoratori, perché mai più possa accadere che l’assenza di tutele incida in modo così clamoroso nelle vite professionali di migliaia di artisti, tecnici e organizzatori. Dobbiamo ripensare al sistema della circuitazione, magari recuperando esperienze passate positive capaci di coordinare con i territori produzione e programmazione. Inoltre dobbiamo affrontare in maniera profonda tutto quello che per anni abbiamo detto essere inadeguato e che non possiamo più nascondere sotto il tappeto. Proveremo a immaginare tutto questo tra un bicchiere di vino e qualche attività che rimetta in moto il corpo, elemento centrale nel nostro mestiere e oggi drasticamente negato. Avevamo pensato per la residenza di Villa Manin a un approccio conviviale e fisico, molto prima che la pandemia compromettesse proprio questi due aspetti delle nostre vite, correndo il rischio di sembrare pazzi a volere parlare di sistema nel mezzo di un simposio: forse invece, come spesso accade, i pensieri più folli appaiono intuizioni lungimiranti, e i matti e i sognatori non sono altro che persone in grado di leggere il mondo da un altro punto di vista.
Pensa che, dopo il periodo di isolamento subito da tutto il mondo dello spettacolo, i teatri pubblici tenteranno di intraprendere politiche nuove, selettive ma non per questo meno inclusive nei confronti della contemporaneità?
Non lo penso, credo semplicemente che debba accadere. Occorre per prima cosa definire le funzioni dei teatri pubblici, soprattutto nei confronti dell’innovazione della scena, del rischio culturale e dei bisogni dei cittadini.
Nell’antica Grecia, durante gli agoni teatrali del V secolo a.C., ogni cittadino di Atene riceveva due oboli, ovvero il theorikon, affinché a tutti fosse concesso di “chiudere bottega” e recarsi a teatro per riflettere assieme a tutta la cittadinanza sui temi fondanti della vita della polis. Certo, potremmo dire che le donne non erano ammesse tra gli spettatori e che il teatro era anche un modo per veicolare i valori della politica… ma non è questa la sede per andare così nel dettaglio. Quel che mi preme sottolineare è che esisteva un rito collettivo in grado di fermare l’attività produttiva della polis e finanche le guerre, perché al teatro non si poteva rinunciare.
Oggi quali attività crediamo si possano interrompere da un giorno all’altro e cosa riteniamo essere fondante nella nostra polis? La risposta è sotto gli occhi di tutti, inutile ribadire che i teatri sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire…
Il tema fondamentale, come accennavo prima, riguarda gli impatti futuri delle scelte politiche. Per esempio se si sceglie di “ristorare” un teatro – anche a vocazione commerciale – per mancati incassi (a fronte di mancate attività nello stesso periodo), perché non prevedere che i beneficiari di quegli stessi ristori siano vincolati a utilizzare almeno una parte delle economie ricevute affinché si generi una ricaduta reale su artisti, imprese e realtà che si occupano di teatro contemporaneo, garantendo un servizio culturale ai cittadini?
Il Covid-19 ha certamente messo in ginocchio il sistema, ma le differenze esistenti tra i soggetti sono diventate solo più evidenti e non si può pensare che un Teatro nazionale o un Tric funzionino bene solo in presenza di una direzione sensibile e illuminata.
Se si ricevono fondi pubblici, si deve svolgere una funzione pubblica e mettere al centro di ogni azione artisti e cittadini. Occorre infine ripartire da una reale mappatura dei soggetti finanziati e non, valutarne le azioni e far derivare da funzioni e responsabilità il contributo concesso.
Spera nel realizzarsi di una democraticità teatrale, vale a dire di un sistema che includa un pubblico ampio e consapevole senza soffrire di iperproduzione e che sappia, pertanto, garantire una maggiore qualità tanto nell’offerta quanto nella fruizione dello spettacolo? Guardando anche alla scena teatrale internazionale, ha potuto farsi un’idea dei Paesi dove questo equilibrio sia stato più pienamente raggiunto rispetto al nostro e da quali fattori determinanti esso dipenda?
Da anni ripetiamo con C.Re.S.Co che il sistema soffre di iperproduzione: se tutti i soggetti finanziati dal FUS si attenessero ai minimi di attività, nel sistema sarebbero immesse 23.000 giornate minime di produzione di teatro a fronte di 9.100 recite minime di programmazione, con preoccupanti conseguenze sulla circuitazione. Questo considerando solo le attività dei soggetti finanziati, chiaramente se aggiungiamo ai numeri indicati l’attività di produzione dei soggetti non ministeriali il quadro si complica parecchio. Una riflessione importante riguarda quindi gli organismi e gli spazi legati alla programmazione, soprattutto se pensiamo al teatro contemporaneo.
Rispetto al panorama internazionale, C.Re.S.Co è partner di importanti network europei come IETM (International network for contemporary performing arts) e EAIPA (European Association of Independent Performing Arts): da anni stiamo collaborando alla realizzazione di mappature atte a fornire un quadro internazionale delle performing arts in tutta Europa: proprio in questi giorni stiamo lavorando a una ricerca atta a conoscere le condizioni di lavoro degli artisti indipendenti a livello europeo (www.soscisurvey.de/european-performing-arts).
Di recente (1 e 2 ottobre scorsi) alla Fabbrica del Vapore a Milano si è svolto il Multi Location Plenary Meeting di IETM: in contemporanea con altre 24 località del mondo, in parte virtuale, in parte in presenza, l’incontro ha sostituito l’assemblea generale autunnale di IETM. C.Re.S.Co ha fatto parte della cordata che ha organizzato l’evento insieme a Liv.in.g, Associazione Etre, Fattoria Vittadini ed Effetto Larsen.
Il lavoro, attraverso panel di esperti e working group tra i partecipanti si è concentrato su alcuni temi che anche a livello internazionale sono centrali: il rapporto con il digitale, la sostenibilità ambientale, accessibilità e inclusione, il livello di cooperazione europea e l’utilizzo dei fondi del Recovery Fund.
Ho raccontato queste due esperienze recenti perché in questo momento la nostra attività è fortemente concentrata sulla ricerca delle pratiche e delle esperienze internazionali, anche al fine di poter individuare i modelli migliori da cui trarre ispirazione anche per il nostro contesto. Occorre chiarire che il confronto tra modelli e pratiche differenti non può non tener conto delle specificità del sistema dello spettacolo dal vivo in Italia, non solo per gli aspetti più legati all’importante tradizione che ci caratterizza ma soprattutto per la complessità insita nel nostro settore, che ad oggi non ha ancora un quadro normativo chiaro, in attesa dei tanto agognati decreti attuativi della L.175/2017.
a cura di Benedetta Buttarelli
foto di copertina di © Eliana Manca