regia di Marco Martinelli – Teatro delle Albe

visto all’Elfo Puccini di Milano _ 21-30 gennaio 2011

Sono bravi questi ragazzi delle Albe. Sono un gruppo affiatato, caldo e coerente, guidato da due capi tribù d’eccezione, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Sono loro la coppia-anima di una compagnia che è da sempre in grado di fondere le ragioni della ricerca e della sperimentazione con il cuore di un teatro vissuto e pulsante, mai troppo lontano dagli spettatori così tanto da annoiarli o respingerli, eppure mai così vicino da confonderli o tramortirli con l’impressione del dejà vu.

Sono bravi coi classici, si trovano a loro agio con le tradizioni oral-teatrali, da qualsiasi parte del mondo vengano, ci sanno fare con i contemporanei. E questo Avaro, che arriva a Milano dopo quasi un anno dalla prima in terra romagnola, è la riprova che vale sempre la pena andare a vedere un loro spettacolo, anche quando, leggendo sul cartellone il nome di Molière, verrebbe voglia di esclamare: «Ancora lui!».

Tanto per cominciare, in questa versione delle Albe Arpagone è una lei. È una minuscola Ermanna che quasi scompare mangiata dal completo da uomo scuro e rigorosissimo, capelli lisci raccolti in una crocchia che le incornicia il volto pallido. Gira per il palco brandendo minacciosa l’asta di un microfono, scettro di potere che amplifica le storture del suo narcisismo. Poi, la piccola Ermanna diventa un gigante e la sua sua voce diventa Arpagone. La carta vincente della messa in scena è qui: nei suoi timbri da gatto che soffia al nemico, nelle graffiate da tigre istigata alla lotta, nelle artigliate di uccello ferito, nell’estasi del potere che si fa suono.

La grande interprete si trasforma in maschera imbizzarrita, clone nerissimo dell’Arpagone originale (ma non così diverso da come Molière, sotto sotto, avrebbe voluto farcelo immaginare, descrivendo la sua società già malata) per una versione destrutturata del classico, dove la trama lascia spazio a quadri imbastiti di fretta, come fossimo un set televisivo: tutto si monta e si smonta seguendo gli ordini, le bizze, i nonsense dell’avaro e della sua avarizia.

Attorno al trono del re che lotta per la sopravvivenza del regno ruotano i co-protagonisti della storia, macchiette robotizzate (alcuni storici attori della compagnia più le nuove leve cresciute ai seminari delle Albe) mangiate vive dall’immensa voce di Ermanna, che assistono impotenti al trionfo del dio denaro che tutto vuole, tutto compra e niente possiede veramente, se non la smania di possedere. Ma intorno ad Arpagone non ci sono solo i suoi cari, figli e servi, coinvolti nella discesa agli inferi. C’è sempre anche un buio fitto, il buio della morte cui egli si è indissolubilmente legato quando ha ceduto al vizio. Lo stesso buio che a un certo punta si tramuta in una discoteca di luci accecanti nella quale tutti si ammassano e convulsamente si muovono, senza riuscire a parlare, senza riuscire a spiegarsi, comunicare.

Siparietto dopo siparietto, con qualche caduta di ritmo nel pur ben oliato allestimento, ridendo a denti stretti e seguendo l’ego di Arpagone che si mangia l’Arpagone in carne e ossa, arriviamo al finale fiabesco da “tutti vissero felici e contenti” (perché no, in fondo si tratta per sempre di una commedia), con l’intervento del deus ex machina Marco Martinelli nei panni del padre buono Anselmo (l’altra faccia del padre nero Arpagone) che scende dal pubblico verso il palco, come a ricordarci che tutti siamo coinvolti e che nessuno è immune da questa cancerogena malattia che è la distorsione della realtà in balia delle proprie nevrosi.

Francesca Gambarini