dal romanzo di Elfriede Jelinek
diretto e interpretato da Teatrino Giullare
visto allo spazio scenico Pimoff, Milano 13-15 dicembre 2015
Dopo Nuvole.Casa. presentato da Chiara Guidi lo scorso mese, è approdato a Milano presso lo spazio giovane e vivace del Pimoff un altro spettacolo del Festival Focus Jelinek: Le amanti, lavoro del bolognese Teatrino Giullare, gruppo di teatro di ricerca fra i più interessanti. Gli attori e registi Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti da vent’anni muovono la loro indagine intorno all’ “attore artificiale”, cioè figure inanimate (pupazzi, fantocci, manichini) che occupano la scena mentre i manovratori si rendono invisibili oppure interagiscono in simbiosi con gli attori in carne ossa. L’ispirazione e l’affinità elettiva va alle radici popolari e democratiche di Giuliano Scabia e agli insegnamenti del suo Teatro Vagante più che a stilemi del polacco Kantor (si pensi a La classe morta). Il tutto in una miscela esplosiva che negli ultimi anni ha portato gli artisti alla reinterpretazione di classici fondanti del teatro novecentesco (Beckett, Bernhard, Koltès, Pinter).
Questa volta la sfida è duplice: portare in scena un romanzo e soprattutto dare sostanza materica alla scrittura feroce di Elfriede Jelinek, un obiettivo opposto rispetto alla scelta della Guidi, tesa invece a valorizzare le cromature vocali di un logos enigmatico. Dunque non più atmosfera da incombente apocalisse: al contrario ora a dominare è la gretta e meschina realtà, presentata attraverso la lente del sarcasmo e scarnificata fino a rivelare l’impossibilità di una catarsi.
Un’ironia sferzante come lava incandescente attraversa il microcosmo apparentemente idilliaco di un placido paesaggio austriaco. Ma l’incipit da favola suona già dissonante. A guidarci dentro questo spaccato di realtà è una narra(t)-trice (Giulia Dall’Ongaro), che illustra il contesto e dà voce anche alle protagoniste dell’amara vicenda, le giovani Brigitte e Paula, rappresentate da donne-pupazzo in balìa di un mondo senza sentimenti. Entrambe coltivano il sogno della felicità e sperano di sottrarsi all’asfittico mondo di provincia, ma il lavoro in fabbrica come possibilità di emancipazione si rivela presto nuova schiavitù e l’idea dell’amore si perde nella banalità ordinaria o nella brutalità, fra osteria, gravidanze, prostituzione. La conclusione amara della Jelinek è che in questo spicchio di mondo la vita non si ferma, passa oltre, e l’amore è solo “un dolore piccolo nella gerarchia dei dolori”.
Certamente la scelta di affidare i ruoli delle protagoniste a due pupazzi in grandezza naturale (costruiti dalla coppia artistica, con scheletro in legno e rivestimento in lattice) rafforza anche visivamente l’idea della donna-oggetto, manovrata da altri. Si tratta di poveri corpi goffi che subiscono i colpi (anche fisici) di una sorte impietosa, anonimi “prototipi dell’insignificante, handicappati sentimentali”, come sottolinea il testo della scrittrice austriaca. Non sono quindi bambole belle e perfette, perché si è voluto accentuare insieme al realismo l’elemento di finzione e quasi di deformità. Eppure talvolta sembrano perfino caricature di se stesse, prive dell’inquietudine che emanano invece automi dai tratti più metafisici.
In effetti le premesse per lavoro di ottima qualità ci sono tutte, eppure non sembrano sfruttate sino in fondo. Forse il testo si sarebbe potuto sfrondare, specialmente nelle parti didascaliche di raccordo, per valorizzare invece la contaminazione fra linguaggi diversi, cioè il logos della narrazione e la corporeità, come accade in rari ma mirabili corto-circuiti: ad esempio la metafora “Erich ha in testa solo i motori” viene “reificata” nel suo valore letterale, estraendo per l’appunto dalla testa del personaggio-pupazzo un’automobilina.
L’invenzione più notevole è senz’altro la scenografia modulare, composta da scatole di cartone che contengono oggetti, ma soprattutto le teste deformi in lattice degli altri personaggi: una sorta di macabro show in the box giocato sul grottesco. Dunque un po’ deposito paradossale di un’umanità in scatola, ripiegata sul proprio ridotto orizzonte, e un po’ anche deposito di vite possibili che resteranno però sigillate. Come un prestigiatore, Enrico Deotti, che talvolta si rivela come la personificazione dell’Amore ma per lo più si eclissa nel buio, svela, scoperchia, richiude, inscatola oggetti e personaggi. Il ritmo però spesso rallenta e la miscela di sorpresa e comico resta debole e a tratti stenta ad accendersi.
Alla fine le sagome delle scatole tornano a comporre i profili di un’Austria felix: l’ordine si è ricomposto, o meglio, la finta parvenza di ordine ha cannibalizzato l’umanità.
Gilda Tentorio