«A love letter to my homeland»: così Princess Isatu Hassan Bangura ha definito Great Apes of the West Coast, il primo lavoro di cui è sia autrice sia protagonista, giunto in Italia grazie alle due repliche di Romaeuropa Festival. La sua, però, è una lettera d’amore irruente e non convenzionale fin dalla prima battuta, un «Fuck it! Fuck it all!» urlato e ripetuto, a chiarire subito che tra la sabbia del palcoscenico si faranno spazio una storia e una voce stanche di essere silenziate.
Le tensioni, effettivamente, non mancano. La lettera di Bangura è scritta per la Sierra Leone, per le sue montagne: quelle in cui i coloni portoghesi, in arrivo dall’oceano, avevano ravvisato le folte criniere dei re della foresta. Eppure, è una lettera costretta in una lingua altra, l’inglese, esattamente come il corpo dell’attrice in scena è costretto in un inaspettato abito lungo, nero e squadrato. E, proprio come l’inglese, che esonda quando la recitazione diventa canto, durante lo spettacolo anche quell’abito nero accoglie i colori di altre vesti e copricapi, e consente invece le danze più inquiete. Ci sono, dietro questi contrasti, il lavoro ai costumi di Tricia Mokosi e la collaborazione con Peter Seynaeve e Reintje Callebaut, rispettivamente assistenti alla recitazione e alla danza.
Lo scontro tra tradizioni – che Great Apes coraggiosamente cerca e che trova con altalenante efficacia – risuona nei contenuti come nella forma di questo lavoro. La lettera di Bangura, per esempio, si prende esplicitamente gioco della filosofia occidentale facendo di Cartesio l’obiettivo polemico di una lunga invettiva: il cogito ergo sum si trasforma così in un logorante ritornello da cantare e danzare allo sfinimento. Se questa ritmata distruzione cartesiana stigmatizza bene l’egocentrismo occidentale moderno, suona invece meno convincente (o forse un po’ frettolosa) la pars construens immediatamente seguente: il tentativo, cioè, di opporre all’«I think therefore I am», genericamente inteso come rappresentativo del pensiero europeo, un «I am because we are», altrettanto genericamente eletto a slogan rappresentativo della cultura dell’Africa occidentale.
La lettera di Bangura, pur costruita su immagini e suoni della Sierra Leone, è però immersa nel teatro occidentale. È in questo teatro che l’attrice si è formata, arrivando a recitare per uno dei registi oggi più affermati sulla scena mondiale, Milo Rau, e avvalendosi di un suo collaboratore storico, Giacomo Bisordi, per la drammaturgia dello stesso Great Apes. Proprio Bisordi, in una breve conversazione a proposito del lavoro svolto con Bangura, ha voluto raccontare le «vie di accesso alla creatività» dell’artista mettendo in risalto l’accumulo di singole immagini da cui ha origine lo spettacolo. Così, infatti, Bangura ha costruito «un percorso ideale che dall’afasia porta al racconto. Princess ogni giorno arrivava a teatro con una lista di immagini descritte a parole. Secondo un modo di procedere quasi canonico per i performer, eseguiva il riscaldamento fisico su una base musicale e man mano chiedeva che da fuori le venissero ricordate le immagini da lei descritte. Da qui nasceva un’improvvisazione fisica a cui progressivamente si sovrapponevano brani di testo, magari già abbozzati in precedenza come flussi di coscienza e solo parzialmente imparati a memoria. Questo materiale, riletto alla luce dell’input fisico, faceva nascere nuovi blocchi di testo che venivano registrati, sbobinati, e che a loro volta si trasformavano in un nuovo testo scritto, nato disfatto e rifatto in un continuo ciclo di impulsi».
Il risultato è un testo volutamente disomogeneo e tortuoso: densissimo in alcuni momenti, appare invece trascinato in altri, come se prolungare la scrittura avesse significato, per la sua autrice, posticipare i conti con la fine. La lettera, dunque, segue le aritmie tipiche di un mittente incerto, pronto a prendere parola – a prendersi uno spazio, quello teatrale, bianco, europeo – ma per ora affaticato dall’urgenza di un dire che col tempo potrà poggiare su costruzioni più meditate, sintetiche, incisive. Il testo, inizialmente ostile alla narrazione e frammentario, si appiana nella sua parte centrale, quando cerca più esplicitamente il racconto e, pur tenendosi alla larga dalla linearità tradizionale europea, riesce – qui sì molto bene – a rievocare brani di una storia tra ricordi che affiorano disordinati e inaspettati: il mango da aprile a luglio; il vino di palma; i Natali d’estate.
C’è anche spazio – ed è forse quello meglio occupato – per i ricordi impossibili, come quello della propria nascita: è con un parto a Freetown nel 1996, nel pieno di una guerra civile, che la storia di questa lettera è cominciata. Alla replica del 4 ottobre 2023, negli spazi del Mattatoio al Testaccio, è una storia che dura da 9609 giorni e che in molti di quei giorni ha conosciuto l’abisso: quando Bangura racconta la sua fuga dalla Sierra Leone, il verde della capanna in scena e il rosso di un ampio scialle sprofondano nel bianco e nel nero grazie al disegno luci di Sander Michiels. A child knows how to run but not how to hide, leggiamo da un proverbio tradizionale della Sierra Leone proiettato, come molti altri nel corso dello spettacolo, tra i crateri della luna piena protagonista della scenografia: davanti a noi, una bambina è diventata adulta.
Infine, Bangura sfugge di nuovo, e la sua lettera torna contorta, le sue parole più complesse, le ripetizioni più ossessive, per lasciare nella mente i ritornelli di una drammaturgia che di nuovo si piega su di sé. «I read somewhere…», dice più volte l’attrice, come se volesse ridimensionare il portato inevitabilmente autobiografico della sua lettera con la chiara vocazione – politica – a farsi testimone anche di voci altrui, lette in un somewhere non specificato. Analogamente torna un’altra domanda, triplice e inquisitoria: «Who are you, where do you come from, what is your story?», a monito costante di una giustificazione troppe volte dovuta: quella per la propria presenza al mondo. Great Apes esorcizza la domanda, probabilmente con una risposta ancora aperta: come le spirali della sua drammaturgia, o delle sue coreografie; e come le due falci di luna che infine, mentre il volume dei canti e delle preghiere di Bangura sale, le incoronano il volto.
Virginia Magnaghi
immagine di copertina: courtesy NTGent
GREAT APES OF THE WEST COAST
ideazione, testo, scenografia, regia e performance Princess Isatu Hassan Bangura
drammaturgia Giacomo Bisordi
musica Edis Pajazetovic
costumi Tricia Mokosi
luci Sander Michiels
performance coach Peter Seynaeve, Reintje Callebaut
assistente alla direzione Elli De Meyer
responsabile di produzione Greet Prové
direttore tecnico Oliver Houttekiet
tecnica Predrag ‘Momo’ Momcilovic, Lars Hollemeersch
produzione NTGent
coproduzione Via Zuid, Likeminds