Quando passa dalla prosa alla drammaturgia, Kossi Efoui sa che la lingua deve adattarsi all’azione, trasformarsi e portare a domande essenziali sulla rappresentazione. Se in En guise de divertissement (2013) la ricerca approda in maniera così attenta e sicura al tema del corpo esposto – non a caso declinato scenicamente attraverso il ricorso alla marionetta – e alle varie implicazioni politiche e post-coloniali, ciò non avviene soltanto per la formazione filosofica e le battaglie politiche portate avanti dal drammaturgo togolese. Si potrebbe anzi dire che il corpo rappresenta il fulcro attorno cui ruota la maggior parte della sua produzione: un fulcro tanto contenutistico quanto formale, vista l’enorme importanza delle collaborazioni artistiche (prima fra tutte quella con il teatro di figura della Compagnie Théâtre Inutile).
Per questo motivo, il nostro “focus nel focus” sulle drammaturgie di Efoui va a ritroso e pesca due testi molto diversi fra loro eppure accomunati – oltre che da una certa brevità – da una cura particolare al tema del corpo e alla gestualità: Le corps liquide (1998) e Le Faiseur d’histoires (2000).
Le corps liquide è un lungo monologo diviso in otto parti. Nasce su commissione dell’Hippodrome (Scène nationale de Douai) e di Théâtre en scène (Roubaix), che nel marzo del 1998 vogliono accompagnare la presentazione di Chemin des Passes-dangereuses di Michel Marc Bouchard con tre monologhi scritti da autori francofoni. Si direbbe allora che Le corps liquide è un testo “minore”, eppure darà grande successo a Efoui e verrà rimesso in scena diverse volte, anche a distanza di anni. Oltre alla Compagnie Théâtre Inutile di Nicolas Saelens nel 2006, è stato ripreso nel 2015 dalla marionettista brasiliana Thaïs Trulio.
Il motivo di tanto successo sembra evidente: in poche pagine, grazie a un linguaggio denso di immagini poetiche e alla voce cruda dell’anziana protagonista, Efoui apre un universo tanto evocativo, metaforico, filosofico, quanto quotidiano, ironico, cinico. Non si tratta di un incantesimo, ma dell’uso sapiente e profondo di una lingua che asseconda il corpo liquido del titolo. Fin dalle prime righe, anzi, è chiaro che in questo legame indissolubile fra corpo e parola si risolverà tutto:
Je récapitule. Je me suis enfuie du jardin où deux cents invité attendent. C’est un geste qui m’a échappé. Ça m’échappe depuis longtemps, les gestes, n’importe quel geste : le manger, le boire, le lever, le coucher… Ça m’échappe, le sentir, le toucher… Cette impression que tout mon corps déborde à l’infini au moindre geste, et je parle, et je parle et là… J’arrête.
Je récapitule. D’abord je suis assise. Obligée de récapituler pour être au clair avec le tronc et les membres pour appeler tête une tête. Sinon tout se décompose. On est mort. J’ai dit Assise.
[…] Je regarde l’heure. Exact. A chaque geste, son nom. Obligée de nommer chaque geste pour retenir mon corps, pour empêcher qu’il déborde. C’est tout.
C’est comme ça depuis la mort du père. Je ne dis pas que c’est lié. Je dis que c’est utile pour dater. Mort du père, début de mon malaise. Date : zéro trois. Zéro un. Quatre-vingts. Il faut dire malaise pour ne pas dire maladie.Ricapitolo. Sono scappata dal giardino dove duecento invitati attendevano. È stato un gesto che mi è sfuggito. Mi sfuggono da tempo i gesti, non importa quale gesto: mangiare, bere, alzarsi, coricarsi… Mi sfuggono il sentire, il toccare… Questa sensazione che tutto il mio corpo trabocchi all’infinito al minimo gesto, e io parlo, e parlo, e poi… mi fermo.
Ricapitolo. Anzitutto sono seduta. Costretta a ricapitolare per essere chiara con il busto e con gli arti per chiamare testa una testa. Altrimenti tutto si decompone. Siamo morti. Ho detto Seduta.
[…] Guardo l’ora. Esatto. A ciascun gesto il suo nome. Costretta a dare un nome a ogni gesto per trattenere il mio corpo, per impedire che trabocchi. Tutto qui.
Le cose stanno così da quando il padre è morto. Non sto dicendo che sia collegato. Sto dicendo che è utile per le date. Morte del padre, inizio del mio malessere. Data: zero tre. Zero uno. Ottanta. Bisogna dire malessere per non dire malattia.
Un’anziana signora, il suo corpo “malato”, la sua vita passata, grigia e piena di colpe, le sue parole che ricapitolano, per tenere l’incontenibile. Tutto è liquido e trabocca, come una diga sull’orlo di cedere. Pochi accenni di una trama: quindici anni fa, il 3 gennaio 1980, il marito dell’anziana (chiamato sempre “il padre”) muore in quello che sembra un incidente ma che la protagonista sa essere un omicidio, compiuto dai suoi tre figli; il 3 gennaio 1995, si celebra il matrimonio di uno dei suoi figli, su cui aleggiano tante dicerie, complice un ritardo sempre più sconveniente dello sposo. L’anziana, fuggita dai suoi invitati, si ritrova sola, pronta a ricapitolare. La forza di questa voce sta nella molteplicità dei livelli in cui si muove il racconto: personale (la storia di una donna con i suoi segreti, le sue colpe), sociale (le aspettative e il campionario di finzioni previsto dai rituali), linguistico (la riflessione sulle parole giuste da usare e su un raccontare che ricapitola, appunto, si ripete), corporeo (la lotta con un corpo in disfacimento, l’indagine su gesti che non si ha il coraggio di compiere), simbolico (il paragone ribaltato fra i figli e un Cristo abbandonato sulla croce dal padre, un padre poeta e folle, emarginato dalla società, il tempo che si ripete come nelle genealogie bibliche). Tutto affiora e si mescola nel linguaggio poetico di Le corps liquide, tutto è esposto alla fuga nella mente e nel corpo di un’anziana prossima a morire.
Fin da una prima lettura, il breve monologo dimostra una qualità tanto naturale quanto sorprendente: l’offerta di spazi interpretativi, l’esposizione al corpo (di carne o di legno) di chi personificherà questa voce. Certamente in questo legame stretto fra parole e gesti che si decompongono, possiamo intravedere le potenzialità delle sue drammaturgie e anche l’apertura a diversi linguaggi performativi, primo fra tutti il teatro di figura.
Tra i grandi temi sottintesi e le aperture offerte da Le corps liquide ve ne è senz’altro anche uno politico, legato in particolare ai padri, alle generazioni che passano, a un tempo che appare vuoto nella sua ciclicità che è pure quella del racconto. In questo senso capiamo come i gesti (in quanto azioni, scelte politiche) si stiano scollando dalle parole, che in ultimo non riescono più a trattenerli. La poesia del padre, unica cosa che sembrava dare vita alle parole, è morta con tutto il corpo che le dava voce e azione. Ciò che resta sono le “maschere” che “non cadono”, i delitti che non si confessano, le finzioni che coprono corpi e parole che fanno acqua da tutte le parti:
Dans le bruit des machines et des autos sur la berge, les éclats de voix des plongeurs définitivement sortis de l’eau, et le murmure de l’annonceur de mauvaises nouvelles envoyé par la police pour me dire que L’hypothèse de la mort est solide, aucun masque n’est tombé.
Je me suis cachée avec les photos de famille. J’ai contemplé les fils à quatre mois, à un an, à tous les âges. […] J’ai regardé leurs petits yeux, leurs petites mains. J’ai refait tous leurs gestes sur les photos. Aucun masque n’est tombé. Cette mort sortie de mon propre ventre, de l’endroit le plus familier de mon corps… On dit familier pour ne pas dire quoi ? J’ai cherché sur les photos le geste monstreux, quelque chose qui l’annonce, et je n’ai rien vu nulle part. J’ai eu peur de tous le gestes. Tous le gestes faits de mains d’homme sont devenus menaçants. Mon visage s’est décomposé, et depuis, mon corps s’échappe dans le moindre geste. Alors, j’endigue, j’endigue. J’endigue chacun de mes gestes, c’est-à-dire je les appelle comme on invective. Je les nomme comme on ordonne Couché ! Couché !
C’est la première fois que je suis morte. Et j’endigue toujours. C’est-à-dire que je parle, que je parle et là… J’arrête.Tra il rumore dei macchinari e delle auto sulla riva, le grida dei sommozzatori definitivamente usciti dall’acqua, e il mormorio dell’annunciatore di cattive notizie inviato dalla polizia per dirmi che L’ipotesi della morte è solida, nessuna maschera è caduta.
Mi sono nascosta con le foto di famiglia. Ho contemplato i figli a quattro mesi, a un anno, a tutte le età. […] Ho guardato i loro occhietti, le loro manine. Ho rifatto tutti i loro gesti sulle foto. Nessuna maschera è caduta. Questa morte è uscita dal mio stesso ventre, dal luogo più familiare del mio corpo… Si dice familiare per non dire cosa? Ho cercato sulle foto il gesto mostruoso, qualcosa che lo preannunciasse, e non ho trovato niente da nessuna parte. Ho avuto paura di tutti i gesti. Tutti i gesti fatti da mani umane sono divenuti minacciosi. Il mio volto si è decomposto, e da allora, il mio corpo sfugge al minimo gesto. Quindi mi trattengo, mi trattengo. Trattengo ciascuno dei miei gesti, e cioè li chiamo come una che inveisce. Li chiamo come una che ordina. Giù! Giù!
È la prima volta che sono morta. E lo trattengo ancora. E cioè, parlo, parlo e poi… mi fermo.
Il “corpo liquido” dell’anziana signora si ritrova in Jan, l’unico personaggio pseudo-realistico del mondo totalmente allegorico e “didattico” di Le Faiseur d’histoires (da cui, nel 2000, i marionettisti Renaud Herbin e Julika Mayer ha tratto lo spettacolo Dans la nuit cette femme et moi). Nella testimonianza delle sue avventure, però, pare che sia il mondo stesso a disattivare le sue funzioni corporee:
Jan : Je cours. Je cours encore. Et cette femme-chose qui me poursuit. Et je cours en ce moment-même. En ce moment précis ? Je vois le taxi arriver. Je veux lever le bras. Un signe de la main. Je ne sens pas mon bras. Jamais senti mon bras de cette façon-là. Manquer à l’appel de cette façon-là. Bras, levez-vous ! Mains, levez-vous ! Quelqu’un hurle des ordres dans ma tête. Le taxi qui se rapproche. Mon bras qui ne répond pas. Qui a mangé mes articulations ? Qui a soudé… tous mes os soudés ? Le taxi arrive droit sur moi. Moi qui cours. Femme-chose qui me poursuit, cette femme-chose qui se rapproche. De plus en plus. Moi qui lance mes jambes. Et tu as beau lancer une jambe devant l’autre. Et j’ai beau… Et j’ai beau… Moi qui n’avance pas. La route, une route qui colle à la plante de mes pieds. Je lance une jambe en avant, la route rattrape mes pieds et le rejette en arrière. Et je lance l’autre jambe. Et la route, cette colle, cette colle, rattrape mon pied et le rejette vers l’arrière. Moi qui cours. Qui n’avance pas. Et mes bras soudés, collés, mes bras qui refusent le simple geste de se lever – TAXI -, je suis un homme tronc en lévitation immobile. Et mes jambes fantômes imitent mal le geste de courir, et mes bras fantômes refusent d’imiter le simple geste de se lever – TAXI -, je mets dans la voix : TA… AAA… TA… AAA. Cette femme-chose qui se rapproche. Je mets tout dans …AAAAA.
Jan: Corro. Corro ancora. E questa cosa-donna che mi insegue. E sto correndo proprio ora. In questo momento preciso? Vedo arrivare il taxi. Voglio alzare il braccio. Un segno con la mano. Non sento il braccio. Non ho mai sentito il mio braccio così. Così, senza azione. Braccia, alzatevi! Mani, alzatevi! Qualcuno urla degli ordini nella mia testa. Il taxi che si avvicina. Il mio braccio non risponde. Chi mi ha mangiato le articolazioni? Chi ha saldato… tutte le mie ossa saldate? Il taxi che si avvicina. Io che corro. La cosa-donna mi insegue, questa cosa-donna che si avvicina. Sempre di più. Io che lancio le mie gambe. E per quanto si lancia una gamba davanti all’altra. E per quanto io… Per quanto io… Io che non avanzo. La strada, una strada che si appiccica alle piante dei miei piedi. Lancio in avanti una gamba, la strada mi cattura i piedi e la ributta indietro. E io lancio l’altra gamba. E la strada, questa colla, questa colla, mi cattura il piede e me lo ributta indietro. Io che corro. Che non vado avanti. E le mie braccia saldate, incollate, le mie braccia che rifiutano il semplice gesto di alzarsi – TAXI -, sono un uomo-tronco che levita immobile. E le mie gambe fantasma imitano male il gesto di correre, e le mie braccia fantasma si rifiutano di imitare il semplice gesto di alzarsi – TAXI -, metto nella voce: TA… AAA… TA… AAA. Questa cosa-donna che si avvicina. Metto tutto nella …AAAAA.
A differenza del padre emarginato e folle di Le corps liquide, infatti, Jan viene apertamente perseguitato dall’ordine sociale, culturale e politico: sia nel suo racconto dei fatti, in cui il mondo pare fagocitarlo e le cose gli appaiono improvvisamente mostruose; sia nel processo dell’azione scenica, a opera di un giudice, un professore e un osservatore straniero. Questi rappresentanti severi, spocchiosi e moralisti accusano vagamente Jan di “aver causato problemi” e soprattutto di “raccontare storie”, portare “il dubbio”. Da quando Jan vede il mondo con occhi diversi, ha cominciato a vedere mostri e a raccontare storie, una colpa molto grave in un mondo di regole e certezze assolute. Se Kafka sorride sornione dietro tanta allusività, non ci stupiamo che nel finale i tre giudici si tolgano la maschera e fra grandi risa si rivelino gli stessi mostri che hanno tormentato l’imputato.
Ma il mondo espressionista di Efoui non si ferma alla critica sociale (nonostante i richiami al capitalismo e al colonialismo per voce del sindaco di un villaggio turistico africano), il vero tema di Le Faiseur d’histoires è la realtà e la sua manipolazione. E quindi il potere. Per questo Jan cede il posto a un burattinaio, chiamato apposta per proseguire il suo racconto e a portare a livelli estremi l’insensatezza e l’allegorismo del processo. A differenza di Le corps liquide, quindi, i piani del racconto drammaturgico, grazie alle marionette, non solo sono esposti, ma sono sviscerati. Per questo il burattinaio diventa figura di un sistema demiurgico e manipolatore, fino a cedere il posto a un vero e proprio imitatore di Jan. La storia di Jan è così sempre più apertamente modificata fino a essere sostituita. Jan stesso subisce sempre più un sistema dall’aria evidentemente occidentale: il suo braccio diventa una marionetta che, mentre lo aiuta a raccontare, lo spaventa sempre più. E quando l’imitatore gli toglie definitivamente la voce, a Jan rimangono poche, brevi battute, in cui torna l’eco amara di Le corps liquide: «Et puis je ne sais plus qui est mon père» («E poi non so più chi è mio padre»). Convinto a “cambiare strada” dai giudici, l’imputato ha perso l’orientamento, è stato privato di una cosa fondamentale: la libertà di raccontare la propria realtà.
È raro leggere testi il cui valore letterario cresce con la prospettiva teatrale, alla cui profondità poetica ne corrisponde una scenica. Le corps liquide e Le Faiseur d’histoires, con i loro movimenti testuali attorno ai corpi, ai gesti e alla realtà tengono tutto insieme. La leggerezza con cui Kossi Efoui affronta temi ad alto rischio retorico fa tutt’uno con la concretezza delle sue immagini, forti e materiche, nonostante provengano da un mondo senza confini, universale.
Riccardo Corcione