Le gardenie (Gardenia) è il testo di debutto della drammaturga polacca Elżbieta Chowaniec, portato in scena al Laboratorium Dramatu (Teatr Dramatyczny) di Varsavia nel 2007. Subito tradotto in varie lingue, è stato messo in scena in teatri russi, ungheresi, sloveni e rumeni. Dobbiamo invece la traduzione italiana di Francesco Annicchiarico alla mise en espace presentata durante un focus sulla drammaturgia polacca nell’ambito del Premio Riccione 2019, curata da Fabulamundi Playwriting Europe. Elżbieta Chowaniec è diventata drammaturga dopo una formazione giornalistica e soprattutto cinematografica, concentrandosi sulla sceneggiatura presso la celebre Scuola nazionale di cinema di Łódź (dove sono passati pure Kieślowski, Polański, Wajda e Zanussi). Il suo orizzonte teatrale si è col tempo esteso al teatro di figura, alla danza e non da ultimo al teatro dell’infanzia, grazie alla collaborazione con il regista ceco Marek Zakostelecky.
In una cinquantina di pagine, Le gardenie attraversa il secolo di storia che ci ha preceduto. Le quattro protagoniste, tutte «belle» e fra i 25 e i 33 anni, sono donne senza nomi. Ognuna è però nata a vent’anni di distanza rispetto all’altra, ciascuna è madre o figlia dell’altra. Su questa catena di salti temporali comunicanti si struttura la drammaturgia di Chowaniec: scena dopo scena, ventennio dopo ventennio, alternando monologhi a dialoghi, entra in gioco una figlia, una nipote, e dall’altro capo del filo una nonna, una bisnonna. Sono soprattutto le madri a subire e combattere le ingiustizie della guerra, gli stereotipi culturali, i soprusi verso il sesso considerato “debole”. Sono loro ad affrontare la mancanza di risposte per le figlie, a portare in scena il proprio lamento per una vita che attraverso i secoli ha un unico denominatore: l’immobilità di un tempo opprimente. La Polonia tra orrore nazista e grigiore sovietico, fino alla caduta del muro di Berlino e all’espansione capitalistica, è affrontata da Chowaniec con sguardo tutt’altro che angoscioso, anzi attento a una quotidianità dai tratti tragicomici. Nonostante il rancore delle figlie, la rabbia delle madri, la depressione delle nonne e la lontananza delle bis-nonne, ciascuna donna sceglierà di tenere vivo questo filo femminile, consapevole che lì e soltanto lì si nasconde la speranza di sopravvivere.
Da Le gardenie:
DONNA IV
[…] Ogni tanto telefonavo a nonna, di notte. Pensavo capisse. Lei sapeva benissimo cosa volesse dire avere una mamma alcolizzata. Ma il più delle volte mi ordinava di mettermi a letto e non fare i capricci. Perciò la mattina mi alzavo, preparavo la colazione, uscivo per andare a scuola e quando tornavo imploravo mamma di andare a lavarsi. Così potevo mettere tutto a posto, perché di pomeriggio veniva la signora Beata per le lezioni di pianoforte, e io mi vergognavo se non era tutto in ordine. Non avevo amici, amiche, non invitavo mai nessuno a casa. Come potevo reagire se qualcuno avesse visto mia madre stravaccata sul divano, che se la faceva sotto? Allora? E mio padre che si vomitava addosso? O anche peggio, loro due nudi al centro della camera e Bari tra le gambe che leccava la vodka? Cose così non si riesce a spiegarle. Non si può e basta.
A diciannove anni andai via da Cracovia. Quattro anni più tardi finii di studiare marketing, feci un tirocinio e restai a lavorare lì. Ora lavoro in una multinazionale. Ho le serate e i fine settimana liberi. L’azienda mi paga un corso annuale di italiano, l’ho scelto io, ho le ferie pagate, ventisei giorni all’anno, perché sono laureata, e la coca-cola gratis, quanta ne voglio. C’è da lavorare duro, ma a me piace questo lavoro. Mi dà un senso di sicurezza, è stabile ed è diventato un elemento irrinunciabile della mia vita. Il mio compagno ripete sempre che mi ci dedico troppo, che è solo lavoro, ma non riesco a fare diversamente. Sono una persona responsabile delle mie azioni. Lui invece è un tipo sincero. È un vero amico, dice sempre quello che pensa. Mi piace passare il tempo con lui. Gli argomenti in comune, i film della sera, il teatro, il pianificare la casa, la corsa mattutina. Siamo felici, possiamo nutrire i nostri sentimenti e crescere insieme. È bello, colto, con una professione che rende. E poi mi sostiene, mi coccola e mi ama. Ha cura per la casa, cucina, pulisce. Mi piace l’ordine. Mi piace quando tutto è al proprio posto. Le magliette verdi con le verdi. I calzini arrotolati. Le gonne alle grucce. Tutto dev’essere al proprio posto. Ogni singola cosa.
Ho frequentato sedute di gruppo e individuali. Vado in chiesa, leggo Hellinger. Ho analizzato tutto. Sono consapevole dell’inizio di questa storia, di come stia continuando, di come finirà. Io capisco. Ciò che è più importante è il perdono e il rispetto. Io amo mia madre, rispetto la sua dedizione, il suo lavoro, l’educazione che mi ha dato. Le perdono tutte le brutte avventure, le cattive parole e i cattivi sentimenti. Spero che un giorno capisca anche lei tutto questo e perdoni anche sua madre, e lei la sua. Spero che si sistemi tutto. Che tutto finisca meglio di come è cominciato.
Monologhi come quello da cui proviene il frammento citato aprono l’ingresso scenico di ogni donna nella sua “versione matura”, non più bambina e in procinto di diventare madre. Precedendo i dialoghi con le altre donne, essi hanno una funzione contestualizzante e storicizzante, ma per lo più aiutano il lettore-spettatore a tenere vivo il filo generazionale. È il caso delle prime righe citate, in cui la quarta donna si identifica in sua nonna (la seconda), poiché entrambe hanno «una mamma alcolizzata». Ci si imbatte spesso in queste rime generazionali, in questi refrain psicologici, in questi cicli temporali, nelle Gardenie, un testo in cui la struttura, costruita attorno ai quattro personaggi, è molto più che una base d’appoggio. In tal senso il testo di Chowaniec ricorda un’altra celebre drammaturgia in cui tempo della vita e tempo del mondo (per usare le parole che intitolano un saggio di Hans Blumenberg) si intersecano così profondamente: Supermarket (2001) della drammaturga serba Biljana Srbljanović. Come in Supermarket, tempo storico e tempo esistenziale non solo dialogano, ma si modificano a vicenda, creano cortocircuiti carichi di senso. Tutte le visioni sceniche che Le gardenie regala giocano su questo tempo ripetuto, sul progressivo stress dei movimenti (psichici e corporei): si può intravedere un orologio a cucù articolatissimo, una macchina teatrale in cui i personaggi lottano per liberarsi dagli ingranaggi da marionette in cui sono costretti.
Chowaniec accumula le disgrazie che il tempo deposita sui suoi personaggi e le fa collimare, lasciando che esplodano. L’ultima donna – anche nel dialogo che seguirà il monologo – è l’unica a non lamentarsi troppo della propria infanzia: le altre ingaggiano lotte asprissime con le proprie madri, le incolpano di incapacità di affrontare la vita, di attrarre ogni disgrazia, di inettitudine o di durezza. In un certo senso, però, questa donna fa peggio delle altre: si vergogna della madre, di come si è ridotta, si vergogna del suo passato e per questo se ne distacca sempre di più. Non a caso Chowaniec ne fa il personaggio più positivo, lontano dagli sbagli facilmente condannabili delle sue predecessore. Proprio il distacco critico contraddistingue l’ultima donna, che nel suo percorso neoliberista fa eco alla Polonia europea di oggi, con le sue grandi aziende e le sue réclame individualiste: essa è una nostra simile, ha studiato e analizza la storia (famigliare e collettiva), la conosce col pensiero più che con la memoria, la riordina come i calzini nel cassetto. È così simile a noi lettori-spettatori che può astrarsi dalla stessa drammaturgia, con un grazioso salto meta-teatrale, «consapevole dell’inizio di questa storia, di come stia continuando, di come finirà». Capita la lezione, risolto il problema attraverso studi e letture colte (l’Hellinger psicologo dei grovigli famigliari), perdona sua madre e si augura che le altre figlie facciano altrettanto. In realtà dietro la presunta emancipazione morale il testo lascia intravedere una nuvola ironica e oscura, che porterà anche la quarta storia al continuum delle precedenti, alla ripetizione, nel bene e nel male: si tratta delle degenerazioni della globalizzazione che conosciamo bene, delle insicurezze, delle ansie, della democrazia contraddittoria, dell’illusione di libertà, di essere «responsabile delle mie azioni». Tutto questo, come per le altre, sembra già riversarsi contro l’ultima donna. La riduce già a una condizione che il suo sesso non può che aggravare. Non si può scappare dalla storia.
E non si può scappare dalle difficoltà dell’essere donna. La denuncia di Chowaniec non è mai retorica, anzi appare consapevole delle contraddizioni e dei compromessi che tale difficoltà comporta, anzitutto nelle contingenze della nuda vita. È il caso del matrimonio, che nonostante i dolori e le violenze passate, è visto fino all’ultimo dai personaggi come una pur minima garanzia di protezione. Subire soprusi, disgrazie o essere abbandonate alla mala sorte sono i fantasmi che aleggiano sulle quattro protagoniste, che le spingono a essere negative e arrabbiate con sé stesse o con le loro madri. E tuttavia è ciò che in fondo le unisce. A ben vedere il rapporto madre/figlia si svela pagina dopo pagina come l’unico approdo per queste quattro vite profondamente solitarie, nel bene e nel male. La forza del testo di Chowaniec consiste proprio in questo: dalla sua ciclicità, dalle sue voci ripetute, emerge e respira una consapevolezza più grande, inscritta nelle pieghe del tempo. Il rancore delle figlie verso le madri si rovescia con gli anni in una gratitudine impossibile da esprimere a parole, esse sono pronte a difendere il passato tanto odiato pur di non perdere quel legame al femminile, unica libertà dalla solitudine. Le gardenie per il matrimonio, una piccola tradizione di famiglia, sono molto più che fiori.
Riccardo Corcione
(foto di copertina: Wojciech Radwański)
Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]