#POSTCARFROMCITY

Quando è serata di spettacolo, al civico 11 di via Spalato qualcosa cambia e sovverte le normali dinamiche urbane. L’ingresso-vetrina di Zona K diventa un luogo di aggregazione: ci si incontra, si aspetta di entrare, si fuma, si beve una birra, si occupa una parte di strada perché il marciapiede è troppo stretto per starci tutti. A sipario chiuso e spettacolo concluso si esce commentando e ci si ferma a chiacchierare, sempre più a lungo del previsto, con qualche amico o conoscente incontrato lì per caso. Il centro culturale Zona K è nato nel 2009, nel momento in cui l’Isola, quartiere storicamente separato dal resto di Milano dalla linea ferroviaria, ha aperto le porte alla città. È oggi un luogo dedicato all’incontro di diverse discipline artistiche, nonché uno dei principali fulcri della vita associativa del quartiere e un punto di riferimento, in termini di sperimentazione e proposta teatrale, per tutta la città. #prisca.puntini

Se uno spettacolo prevede la partecipazione attiva del pubblico e della comunità locale, la promozione digitale non basta. Bisogna tornare alla matericità del manifesto, del volantino, dell’adesivo. Così è stato per lo spettacolo di Eleonora Pippo, realizzato in una settimana di lavoro con un gruppo di ragazze milanesi dai 13 ai 18 anni. È un progetto la cui promozione, per natura, è capillare: nelle famiglie, nelle scuole, fra gli amici e i conoscenti delle attrici. We are not Girls. We are silver bullets for your middle-class brains! Questo lo statement che recita l’adesivo di promozione del progetto: l’estensione concreta, in carta e colla, di una provocazione che idealmente ha raggiunto tutti i muri, le panchine, le scale e gli spazi del quartiere Isola e di Milano. #prisca.puntini

Quanti spettacoli si concludono con il gonfiabile gigante di una ragazzina celeste che si incastra fra il palcoscenico e le travi reticolari del soffitto? La comparsa di questo ready-made postmoderno che si espande con estrema lentezza e sbatte ostinato contro i riflettori sancisce il passaggio fra i due segmenti costitutivi dello spettacolo: un “prima”, dove lo spazio è vuoto, libero da elementi scenografici e abitato solo dalle attrici e un “dopo”, dove l’indiscusso protagonista è il colore azzurro. L’installazione La Fine Azzurra, opera della stessa regista Eleonora Pippo, mette in scena quello che nel fumetto da cui è tratta la drammaturgia è “un fatto incontenibile, che travalica ogni confine”. Cioè il tema della morte, a ben guardare già preannunciato nel titolo dello spettacolo. Un aneddoto curioso? L’organizzazione di Zona K non era sicura di poter accogliere lo spettacolo proprio per via delle dimensioni del gonfiabile. A noi sembra che questo imprevisto abbia potenziato l’efficacia della messa in scena: la colonizzazione ad opera del gigante blu è ancora più invadente e pervasiva in uno spazio così ristretto. #prisca.puntini

#POSTCARDFROMPEOPLE

Quando c’è talento, serietà e impegno, si può esibire con orgoglio la parte più spontanea e fuori controllo che appartiene ad ognuno di noi. Le protagoniste dello spettacolo hanno sperimentato così un nuovo modo di vivere il teatro. Dopo l’esibizione, emozionate e stravolte dal rilascio della tensione, ci raccontano di un prima, quando la loro espressività subiva ancora il rigido controllo dell’auto-giudizio e del pudore, e di un dopo vitale e liberatorio, in cui finalmente “sono cambiata: non mi vergono più a parlare in pubblico”, “riesco a cantare senza sentirmi giudicata”, “sono davvero cresciuta: ho meno paura di tentare nuove cose che prima non avrei mai fatto e mi sento più aperta con le persone”. C’è chi sogna in grande: “anche da adulta, voglio seguire questa strada”, e chi è già contenta così: “partecipando a questo laboratorio ho rivalutato il teatro, e di certo ci andrò più spesso”. Un’esperienza che ha fatto crescere talenti e nascere amicizie, e che tutte le ragazze consigliano vivamente a chiunque, senza eccezioni. #Brux

Quando sul palco prende vita una scena di cui potremmo essere noi stessi protagonisti nella nostra vita quotidiana, scatta subito una connessione emotiva più profonda. Il mondo delle ragazzine di Milano ruota attorno al complicato momento dell’adolescenza, che i genitori in sala conoscono molto bene. Forse in questa fase il conflitto con i figli lascia poco spazio alle confidenze sui propri sentimenti. Allora, durante la lettura delle letterine, ingenue e sincere, che le ragazzine scrivono “alla me stessa del futuro”, non si può fare a meno di notare tra il pubblico chi, commosso, si copre con un fazzoletto o chi, invece, si lascia liberamente andare alle lacrime. #Yukio

Le ragazzine attrici, pur scambiandosi più volte i ruoli interpretati, non recitano mai nei panni di un adulto. Quando la scena prevede la presenza di un genitore o di un insegnante, ecco che il pubblico viene invitato a collaborare: “Per la prossima scena c’è bisogno che qualcuno di voi legga alcune battute. Chi se la sente?” Non sempre, però, è immediata la risposta degli spettatori, un po’ per la timidezza, un po’ per la paura di sbagliare. Allora si potrebbe pensare di offrire un incentivo: “Se qualcuno vuole fumarsi una sigaretta, potrà farlo sul palco dopo aver letto ad alta voce le righe evidenziate in giallo”. All’istante dalla platea proviene entusiasta un “vengo io!”. #Yukio

#POSTCARFROMSTAGE

Chi dice di rivolere indietro la gioventù, non pensa certo agli acneici tredici-sedici, buco nero della storia di ognuno di noi. I diciassette sono già tutta un’altra vita – complice almeno un poco l’immaginario della ‘regina danzante’ degli Abba. Diciotto meglio ancora: stessa testa, con qualche marcia in più. Curiosamente Eleonora Pippo, regista dello spettacolo “people specific” Le ragazzine (di Milano) stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra, ha voluto sotto lo stesso tetto teatrale questi antipodi: 13-18. E quel che è ancora più curioso è che di questa scelta quasi ardita in scena non sembra rimanere traccia: non solo perché il “toto-età” è destinato a risolversi in un buco nell’acqua, ma perché tutte sono costrette a un passo indietro in termini di anni. Come mai liceali avviate dovrebbero essere ingaggiate a rappresentare i “cimenti” di due ragazzine delle medie, le Motta e Castracani protagoniste della grafic novel di Rathiger da cui è tratta la drammaturgia? L’impressione è che ragazze e pubblico – stretti entro uno stesso spazio illuminato – siano chiamati a una eguale azione di ricomposizione del proprio vissuto. Non è un caso che le ‘pause narrative’ abbiano la meglio – almeno psicologicamente – sul tempo del racconto: le ragazze a turno cantano, “si esibiscono”, o si cimentano tutte insieme in una prova di hula hoop, ma in tempi troppo lunghi perché si possa pensare a “stacchetti”. Si direbbe anzi che la narrazione, che fila tanto spedita da risultare, a tratti, confusa, sia una corsa tra due tempi di sospensione – tempi di riflessione obbligata per lo spettatore, che incalzato dalla performance canora delle ragazze, si scopre a ricordare quella parte di vita ormai archiviata e tempi “pesanti” anche per le attrici, costrette a lunghi ripiegamenti su di sé. L’auspicata saldatura esperienze, età e percorsi di pubblico e attrici ha luogo in effetti, almeno nel ‘qui e ora’ e almeno a intermittenza, ogniqualvolta una delle ragazzine indirizza una lettera alla sé del futuro: una vocina amica che chiede di non essere dimenticata. #FreddyBear

Chi dice di rivolere indietro la gioventù, non pensa certo agli acneici tredici-sedici, buco nero della storia di ognuno di noi. I diciassette sono già tutta un’altra vita – complice almeno un poco l’immaginario della ‘regina danzante’ degli Abba. Diciotto meglio ancora: stessa testa, con qualche marcia in più. Curiosamente Eleonora Pippo, regista dello spettacolo “people specific” Le ragazzine (di Milano) stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra, ha voluto sotto lo stesso tetto teatrale questi antipodi: 13-18. E quel che è ancora più curioso è che di questa scelta quasi ardita in scena non sembra rimanere traccia: non solo perché il “toto-età” è destinato a risolversi in un buco nell’acqua, ma perché tutte sono costrette a un passo indietro in termini di anni. Come mai liceali avviate dovrebbero essere ingaggiate a rappresentare i “cimenti” di due ragazzine delle medie, le Motta e Castracani protagoniste della grafic novel di Rathiger da cui è tratta la drammaturgia? L’impressione è che ragazze e pubblico –stretti entro uno stesso spazio illuminato– siano chiamati a una eguale azione di ricomposizione del proprio vissuto. Non è un caso che le ‘pause narrative’ abbiano la meglio –almeno psicologicamente– sul tempo del racconto: le ragazze a turno cantano, “si esibiscono”, o si cimentano tutte insieme in una prova di hula hoop, ma in tempi troppo lunghi perché si possa pensare a “stacchetti”. Si direbbe anzi che la narrazione, che fila tanto spedita da risultare, a tratti, confusa, sia una corsa tra due tempi di sospensione –tempi di riflessione obbligata per lo spettatore, che incalzato dalla performance canora delle ragazze, si scopre a ricordare quella parte di vita ormai archiviata e tempi “pesanti” anche per le attrici, costrette a lunghi ripiegamenti su di sé. L’auspicata saldatura esperienze, età e percorsi di pubblico e attrici ha luogo in effetti, almeno nel ‘qui e ora’ e almeno a intermittenza, ogniqualvolta una delle ragazzine indirizza una lettera alla sé del futuro: una vocina amica che chiede di non essere dimenticata. #FreddyBear

Chi dice di rivolere indietro la gioventù, non pensa certo agli acneici tredici-sedici, buco nero della storia di ognuno di noi. I diciassette sono già tutta un’altra vita – complice almeno un poco l’immaginario della ‘regina danzante’ degli Abba. Diciotto meglio ancora: stessa testa, con qualche marcia in più. Curiosamente Eleonora Pippo, regista dello spettacolo “people specific” Le ragazzine (di Milano) stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra, ha voluto sotto lo stesso tetto teatrale questi antipodi: 13-18. E quel che è ancora più curioso è che di questa scelta quasi ardita in scena non sembra rimanere traccia: non solo perché il “toto-età” è destinato a risolversi in un buco nell’acqua, ma perché tutte sono costrette a un passo indietro in termini di anni. Come mai liceali avviate dovrebbero essere ingaggiate a rappresentare i “cimenti” di due ragazzine delle medie, le Motta e Castracani protagoniste della grafic novel di Rathiger da cui è tratta la drammaturgia? L’impressione è che ragazze e pubblico –stretti entro uno stesso spazio illuminato– siano chiamati a una eguale azione di ricomposizione del proprio vissuto. Non è un caso che le ‘pause narrative’ abbiano la meglio –almeno psicologicamente– sul tempo del racconto: le ragazze a turno cantano, “si esibiscono”, o si cimentano tutte insieme in una prova di hula hoop, ma in tempi troppo lunghi perché si possa pensare a “stacchetti”. Si direbbe anzi che la narrazione, che fila tanto spedita da risultare, a tratti, confusa, sia una corsa tra due tempi di sospensione –tempi di riflessione obbligata per lo spettatore, che incalzato dalla performance canora delle ragazze, si scopre a ricordare quella parte di vita ormai archiviata e tempi “pesanti” anche per le attrici, costrette a lunghi ripiegamenti su di sé. L’auspicata saldatura esperienze, età e percorsi di pubblico e attrici ha luogo in effetti, almeno nel ‘qui e ora’ e almeno a intermittenza, ogniqualvolta una delle ragazzine indirizza una lettera alla sé del futuro: una vocina amica che chiede di non essere dimenticata. #FreddyBear