di Aristofane
interpretato e diretto da Teatro Due
Visto al teatro Elfo Puccini, Milano_ 12-24 marzo 2013
Chi ancora non conoscesse lo storico Teatro Due di Parma (e la loro magistrale Istruttoria di Peter Weiss, doverosamente riproposta per anni all’Elfo come un monito a spettatori vecchi e nuovi) potrebbe sorprendersi per la regia collettiva di queste Rane: gli otto attori non solo interpretano, ma dirigono insieme uno spettacolo necessariamente corale che – ci piace immaginarlo – sarebbe piaciuto ad Aristofane. Ai suoi tempi, del resto, il coro era composto di semplici cittadini e la commedia si nutriva dell’attualità: così spetta oggi agli attori, ma anche al pubblico, trovare insieme nel testo le consonanze con la cronaca politica e giudiziaria di oggi.
Le Rane riflette la crisi profonda della democrazia, ne mette a nudo antichi nodi mai risolti, denuncia la decadenza irreversibile di una classe dirigente: tant’è che con questa commedia Ronconi, a Siracusa nel 2002, ha suscitato polemiche, censure e contestazioni senza precedenti. E se lì l’attualizzazione si limitava a quattro manifesti con i politici di turno (peraltro prontamente rimossi dalla scena, per le reazioni suscitate) qui giustamente non è solo la scenografia, ma tutto l’insieme, a ricordarci il presente. Innanzitutto il testo è adattato con giudizio, quel tanto che basta per aggiornare una traduzione che invecchia più velocemente della satira: cambiano i nomi e i dettagli, ma non le meschinità, le ruberie, le insidie del potere e le tentazioni della corruzione. E se molte battute di Aristofane potrebbero essere scritte oggi, tanto sono attuali, gli attori ironicamente aggiungono – strappando risate e applausi – che siamo nel 405 a.C. Ossia in un’Atene allo sbando e allo stremo, dopo quasi trent’anni di guerra, dove la fine di una città coincide con la morte dei suoi poeti. Tanto che il dio stesso del teatro (Dioniso / Gigi dall’Aglio, come sempre straordinario) scende agli Inferi per resuscitare il suo amato Euripide e finisce per arbitrare una gara di poesia, nel tentativo di “salvare la città e conservare il suo teatro”. Una necessità, questa, che gli attori giustamente ripetono come un mantra e che ispira tutta la commedia. Specialmente la seconda parte, la più riuscita dal punto di vista drammaturgico e registico: al nostro gusto infatti la partenza appare un po’ lenta e la funzione primaria del prologo aristofaneo (‘scaldare il pubblico’) si perde nelle schermaglie iniziali tra Dioniso e il suo servo Xantia. Il ritmo si fa più sostenuto quando i due incontrano Eracle, che insegna come scendere all’Ade, e poi Caronte, il traghettatore infernale. E si cambia decisamente marcia con lo strepitoso coro delle rane: i versi onomatopeici di Aristofane sono cantati – sulla musica di “Maramao perché sei morto” – da un surreale terzetto en travesti alla Paolo Poli, messo in fuga da Dioniso con una battuta del tipo: “Mi rovinano tutta la commedia! Non ho tempo io per questi laboratori sperimentali!”. Le avventure di Dioniso nell’Ade si concludono con una gara tra il vecchio Eschilo e il giovane Euripide, a colpi di versi, per la palma di miglior poeta. E qui l’adattamento si affranca dall’originale e prende letteralmente il volo: il giudice non è Dioniso, ma gli spettatori, che votano il candidato preferito sulle schede distribuite dagli attori. E soprattutto, al contrario che in Aristofane, i versi vincenti non sono i più pesanti, ma i più leggeri: sono i palloncini chiamati “Pneus” (dal greco “soffio”) che si alzano dal palco mentre risuonano le voci di grandi poeti e letterati. Un finale incantevole, sospeso e toccante, che ci ricorda quanto conti sperare, credere, fare in modo che la città e il suo teatro possano salvarsi davvero.
Martina Treu