Da Maria Stuarda di Friedrich Schiller
Drammaturgia Paolo Bignamini
Regia Alberto Oliva
Con Maria Eugenia D’Acquino, Annig Raimondi
Produzione PACTA. dei Teatri
Visto al Teatro Oscar di Milano_ dall’8 al 25 maggio

Due tra le regine più celebri di tutti i tempi sono al centro del complicato dramma di Schiller, rivisitato da Paolo Bignamini e portato sul palcoscenico dal regista Alberto Oliva. Un omaggio senza ombra di dubbio al drammaturgo tedesco che per primo immaginò il tragico incontro tra Maria Stuarda ed Elisabetta I, ma soprattutto un’inedita riscrittura che con audaci salti temporali – tanti sono i ricordi che nella drammaturgia di Bignamini intervallano il plot narrativo – intesse legami tra le vicende, più o meno storiche, del XVI secolo e suggestioni legate alla più recente contemporaneità.

I fantasmi delle due nobili cugine si materializzano nel carcere della Torre di Londra, una suggestiva ragnatela piramidale ideata da Giuseppe Marco Di Polo. Una struttura che simboleggia forse la difficile scalata verso le vette del potere, di certo un ambiente volutamente angusto e claustrofobico, che trattiene a fatica l’agitarsi impetuoso delle protagoniste: nel corso dello spettacolo le due protagoniste non possono fare a meno di uscire e rientrare in scena, di sfuggire a questa gabbia spaziale, di varcare il confine con la platea.

Precipitate sulla scena da un’epoca indefinita, la regina cattolica e la regina protestante si sfidano in un duello senza esclusione di colpi, che lascia emergere la loro radicale alterità ma anche una profonda comunanza: un’attitudine al potere, ma anche una vita di costrizione e solitudine. “Possiamo fare tutto, ma le nostre scelte sono obbligate” ricorda con amara lucidità Maria Stuarda all’amata-odiata Elisabetta; scelte non prive di conseguenze per la Stuart, se è vero che Elisabetta, incurante dei legami di parentela e terrorizzata da congiure e mire al potere, condannò la temuta cugina a una lunga prigionia e a una spietata decapitazione.

Un confronto drammatico quello tra le due personalità, che scava nei remoti meandri del passato facendo riemergere, ora con toni tragici ora con intelligente ironia, i momenti più tormentati delle loro esistenze. Ecco allora riaffiorare alla memoria di Maria la morte del giovanissimo sposo, l’interminabile reclusione e la condanna a morte; Elisabetta I ripensa invece alla propria ossessione per le cospirazioni, alla scelta di restare da sola e di non avere figli, alla difficoltà di affermazione come donna, regina riverita e temuta.

A dare anima e corpo a queste carismatiche personalità le attrici Maria Eugenia D’Acquino (Elisabetta I) e Annig Raimondi (Maria Stuarda), che si fanno apprezzare per un’interpretazione intensa e misurata; una sfida non facile quella di non cedere ad un eccessivo patetismo, vista la natura dei fatti raccontati e la potenza desueta della lingua schilleriana. Ad Annig Raimondi il compito (particolarmente riuscito) di incarnare un’altra celebre regina senza testa: prende vita così sulla scena anche Anna Bolena, madre di Elisabetta I, che insegue e punzecchia la figlia rinfacciandole tra il serio e il faceto la sua sgradita nascita.
Lo spettacolo indaga con efficacia gli eterni meccanismi del potere e riflette sull’attualissima e complessa questione del rapporto tra donne e potere; l’universalità dell’argomento è ben chiara e i forzosi riferimenti alla contemporaneità proposti dalla regia paiono di troppo, quasi fuori posto in uno spettacolo costruito per il resto secondo altri codici.
Le due regine gironzolano tra gli spettatori armate di cellulari, patenti e abiti moderni, senza però sperimentare fino in fondo la possibilità di una relazione con il pubblico. E con il rischio di disperdere il pathos e la credibilità della narrazione.

Alessandra Cioccarelli