Seppellite, insorgete,
le catene spezzate,
con l’inimico sangue
libertà spruzzate,
e nella grande famiglia
nuova, liberata,
non obliate ricordar di me
con parola grata.
Taras Hryhorovyč Ševčenko
Alle spalle della Biblioteca Malatestiana, uno spazio raccolto profuma di spezie lontane e citronella. In questo giardino, al riparo dalla canicola di fine luglio, ha ufficialmente inizio la quinta edizione del FU ME Festival, quest’anno dislocata tra gli spazi cittadini del centro città di Cesena, attorno al Chiostro di San Francesco, e la suggestiva location di Villa Silvia Carducci. Ispirandosi al viaggio come metafora della curiosità, dell’incontro e della complessità delle comunità migranti, il progetto targato Alchemico Tre tenta di problematizzare le innumerevoli sfumature che quel sostantivo evoca. Accanto alle proposte spettacolari, il calendario di eventi include così una serie di interventi da parte di associazioni attive sul territorio e dialoghi con personalità che hanno fatto del viaggio la propria cifra.
È il caso della prima ospite di questa edizione: giornalista di guerra, podcaster e autrice del reportage L’incendio (Mondadori, 2023), Cecilia Sala ha trascorso i suoi ultimi anni spostandosi da un luogo di conflitto all’altro, animata dall’incessante desiderio di raccontare il mondo e le sue ferite aperte. La voce di Cinzia Spanò – attrice, attivista e cofondatrice di Amleta – accompagnata dalle note di Demetrio Cecchitelli del collettivo ROVINA, ha il compito di leggere il testo attorno a cui è costruito l’evento di apertura.
Al centro del palco, seduti su due piccole poltrone, Sala condivide la scena con Michele Di Giacomo (direttore artistico del festival) che, con emozione, sfoglia i suoi appunti di geopolitica e si prepara a un dialogo su tre dei conflitti più significativi dell’ultimo decennio: tre incendi – Iran, Ucraina e Afghanistan – che bruciano il mondo e con lui la generazione che tra quelle fiamme sta diventando grande. Sala, classe 1995, storce leggermente il naso quando Di Giacomo rimarca la sua giovanissima età: «In Iran» dirà sorridendo qualche ora dopo sorseggiando una birra ghiacciata «mi vedono più come una vecchia saggia».
Non ha scelto aprioristicamente di narrare le guerre attraverso le voci di ragazzi e ragazze ventenni, ma – come racconta sul palco – frequentandoli e raccogliendo le loro storie ha ritenuto opportuno, per ragioni diverse a seconda del luogo, dar voce a quelle generazioni resistenti che hanno rovesciato le sorti della Storia. Sono vicende di ribellione, che offrono al titolo del reportage una significativa duplicità: alle note di dolore e angoscia della devastazione che le fiamme di un incendio suggeriscono, si accostano quelle che si alzano dai cortei di protesta, sublimi e intense, il perfetto combustibile con cui dar fuoco alle coscienze. La scrittura di Sala, tanto affilata quanto carezzevole, cuce tra loro le trame dei personaggi che attraversano i suoi racconti in un arazzo-mondo dalle tinte sanguigne: una miscela di toni e colori terrosi che avvince, scalda e lascia riverberare la meraviglia imperfetta dell’umano. L’impalcatura narrativa che l’autrice romana compone – che si tratti di una puntata del suo podcast Stories o di un reportage – rivela con assoluta chiarezza l’intento di compensare la mediazione dell’audio o della scrittura con l’immagine: i racconti che propone, al pari di una drammaturgia, procedono tratteggiando delle vere e proprie scene attraverso la forza evocativa delle sfumature.
«Sono famelica di dettagli» dice in risposta a una domanda sull’attivazione del processo creativo. «Quando racconto una storia ho bisogno di conoscere molto più delle semplici notizie d’agenzia: atteggiamenti, vestiti, sguardi… Per quanto ne riconosca il valore non sono mai stata una grande fan del bollettino di guerra. Mi piace perdermi nelle storie piccole e apparentemente marginali per poi rivelarne l’universalità». In quel momento mi ricordo nitidamente il ritratto di Zarifa Ghafari, la ventiquattrenne afghana già sindaca di Maidan Shahr (capoluogo di provincia di Vardak). La travolgente narrazione che funesta la sua terra, ottimamente restituita dalle parole di Sala nell’ultima parte del reportage, si intreccia con maestria ai dettagli della storia personale di Zarifa: è molto magra, ha un taglio degli occhi lungo, preferisce i veli bianchi e si commuove quando pensa all’insolito – e certamente a noi poco comprensibile – affetto di suo padre che in un momento di orgoglio le rivela, sottovoce, di aver sempre pregato Dio affinché gli facesse dono di una figlia femmina.
La conversazione procede tracciando linee di congiunzione tra disperazione e speranza, tra emozioni che bucano il muro dell’indifferenza e lucidissime considerazioni da reporter: un itinerario dalla geografia complessa che rivela uno dei tanti significati del titolo In viaggio di questa edizione di FU ME. Seduto in quella platea attenta e curiosa, non riesco a smettere di chiedermi come si riesca a restare seduti al proprio pc per raccontare l’inferno, mentre tutto attorno divampano le fiamme.
«Perché credi che sia importante raccontare le storie di paesi che la maggior parte di noi vorrebbe dimenticare?», chiede infine Di Giacomo poco prima di tornare alla lettura scenica del testo. «Nelle conversazioni con le persone che soffrono, c’è un livello di intensità e di onestà che vale tutta la pena di fare questo mestiere: in un’Italia dove il dibattito pubblico è spesso dominato dal diametro delle vongole mi sembra di ristabilire un certo equilibrio nella percezione comune delle disgrazie. Le parole sono un’arma potentissima con cui si possono davvero rovesciare i governi. Sono le poesie del più famoso poeta ucraino – Taras Hryhorovyč Ševčenko – recitate davanti alle barricate dal giovane ragazzo armeno-ucraino Serhiy Nigoyan durante le proteste di Euromaidan a dare inizio alla catena dei tragici eventi che porterà all’invasione di Putin. La polizia russa, incapace di limitare la dirompenza delle sue parole, gli sparò a sangue freddo. Accadeva sette anni prima dell’inizio della guerra contro l’Ucraina, ma l’Europa era troppo impegnata nelle sue miserie populiste o troppo allarmata da un’insensata emergenza migranti per raccontare la sua storia. Abbiamo il vizio di appassionarci alle storie quando si è superato il punto di non ritorno. Le storie del mondo ci riguardano e ce ne accorgiamo sempre troppo tardi».
Ivan Colombo
in copertina: Cecilia Sala e Michele Di Giacomo, Fu ME Festival 2024, foto Chiara Pavolucci
CECILIA SALA / L’INCENDIO
lettura Cinzia Spanò
intervento audiovisivo ROVINA (Vladimir Bertozzi / Demetrio Cecchitelli)
produzione Alchemico Tre