In viaggio, tra Colchide e tangenziali
Ne abbiamo visti tanti, in questi anni, di spettacoli per pochi spettatori, di performance one to one, di dispositivi volti a innescare un’intimità forzata tra attore e pubblico. E non è raro, quando si ripensa a freddo alla natura di molti di quegli esperimenti, che resti l’impressione di un semplice escamotage per ottenere immediatamente coinvolgimento e partecipazione attiva.
Ecco perché, quando si sale sul furgoncino di Medea su viale Zara (guidato dal regista Giampiero Borgia), le carte dello spettacolo sono ancora tutte da giocare. I sette spettatori prendono posto sui sedili liberi, il silenzio viene interrotto di tanto in tanto da un chiacchiericcio imbarazzato, la città comincia a scorrere oltre i finestrini coperti da tende colorate.
Poi sale lei. Capelli lunghi neri, trucco pesante, una smorfia sorridente e dolorosa. Elena Cotugno, Medea-prostituta dell’est, cerca di fare conversazione, tra frasi masticate a mezza voce, domande-esca che gli spettatori possono cogliere oppure no, osservazioni di circostanza. Come un meccanismo che si avvia tra cigolii e resistenze e guadagna velocità a poco a poco, anche la drammaturgia prende le mosse da una conversazione un po’ forzosa e diventa via via più fluida mentre i commenti dell’equipaggio si zittiscono: l’attrice conquista sul campo un silenzio denso e partecipe, con una interpretazione intensa ma misurata, che riesce a rendere credibile persino un finto accento dell’est.
Le tappe sono quelle di una storia come tante: il viaggio dalla Romania, l’arrivo in Italia, l’amore per quel Giasone che si rivelerà un Caronte-traghettatore verso l’inferno.
Fuori, la città corre. Ma i frammenti urbani paiono irriconoscibili ora, trasformati dalle parole di Elena/Medea in una vera e propria scenografia di senso; il tentativo di orientarsi in un panorama che dovrebbe essere noto si rivela più difficoltoso del previsto, e le strade sembrano improvvisamente dense di elementi funzionali alla storia. Quell’uomo sul marciapiede di un grande viale periferico sta cercando una prostituta? E ci sono sempre state, nella città, tutte quelle insegne in lingue straniere, che parlano di sradicamento e mancanza di integrazione? Quel guidatore fermo accanto a noi al semaforo, non ci sta guardando un po’ scandalizzato?
La vicenda termina proprio come il titolo dello spettacolo ci induce a pensare: la vittima si rivela carnefice e, terminata la raggelante confessione, scende dal furgone per continuare il suo sofferto viaggio nel mondo. Il mito attraversa la cronaca e la trasfigura, trasformando una ordinaria storia ignobile in una parabola universale. Medea non è solo una clandestina dell’est costretta a prostituirsi, ma un essere umano che, schiacciato e umiliato, reagisce. La tragedia greca ci insegna a non sottovalutare gli effetti del conflitto tra libertà e necessità. E neanche noi, se guardassimo negli occhi i personaggi che stanno in proscenio agli angoli delle nostre strade, dovremmo.
[M.G.]
Il mito di Medea, per esempio
I miti antichi (per intenderci: dei Greci e dei Romani) costituiscono degli strumenti di mediazione: attraverso i miti, cioè, riusciamo a leggere la realtà intorno a noi. Il mito dunque si fa figura e simbolo di una verità fattuale, offrendo in questo modo supporto all’attenzione, che è la virtù e il presupposto di ogni fare artistico e letterario. L’arte, infatti, non può che nutrirsi di realtà e la ricchezza della realtà è inesauribile: non può esistere arte che non sia in questo senso realistica, che si propone cioè la massima attenzione verso le cose reali per esprimerle attraverso il linguaggio. Il mito, già etimologicamente (dal greco: mythos), è dunque ‘parola’, la parola che esprime con precisione l’oggetto della percezione della realtà da parte di chi lo racconta. La percezione è naturalmente un processo psicologico, tanto più chiaro e lineare quanto più riuscito è il rapporto dell’artista con il mondo. La semplicità del mito antico fornisce dunque chiarezza all’artista, tanto che basta dire: Edipo, Antigone, Medea, per esprimere un aspetto della multiforme realtà e della condizione dell’essere umano in essa. È proprio in questo senso che la letteratura degli antichi è ‘classica’, possiede cioè quella limpidezza della verità e quella grazia dell’attenzione indispensabile per leggere la realtà umana. Come scriveva un grandissimo del teatro, Heiner Müller, i miti ci servono ‘per esempio’: esempio di realtà, perché lo scrittore è – in un’intramontabile definizione di Elsa Morante – “un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura”.
Questi presupposti giustificano le riscritture, rielaborazioni, correzioni dei miti antichi nella poesia (anche drammatica) contemporanea: in cui dobbiamo inserire questa Medea su viale Zara diretta da Gianpiero Borgia, e scritta da Elena Cotugno in collaborazione con Fabrizio Sinisi. Poeta e drammaturgo, quest’ultimo, che già con Agamennone (2016, il testo è stato pubblicato con Edizioni di Pagina, e introdotto da Franco Perelli) ha usato il mito come strumento di attenzione sulla realtà, ma restando su un piano metaforico che in Medea invece viene eluso per una precisa contestualizzazione: quella dell’emigrazione clandestina, dello sfruttamento della prostituzione, delle condizioni di vita delle donne dell’Est europeo che arrivano con terribili odissee esistenziali in Italia. Il risultato è una lingua nuda, concreta, che del mito ha l’immediatezza e l’efficacia, senza rinunciare a un lirismo poetico che commuove ma non indulge all’artificio. Una lingua che simpatizza con le cose, le enuncia con il loro nome, riceve alimento dalla vita, ma sa comunque assolutizzarsi: racconta l’amore, la disperazione, la gelosia, l’omicidio. Il testo è lirico anche perché ‘a voce sola’, nella quale mimeticamente si assommano gli altri personaggi. D’altro canto, siamo in ambito drammatico: la voce chiama in causa il pubblico (o il lettore), dando alle parole dimensione corale e tragica.
Questa Medea della Cotugno si accosta tematicamente a Manhattan Medea (1999) di Dea Loher: dove protagonista è una prostituta di origine balcanica a New York, il cui compagno Jason, profugo come lei nella Grande Mela, tenta il colpo di fortuna e di integrazione con un ricco matrimonio (in Italia il dramma è andato in scena a Palermo nel 2009 per la regia di Beno Mazzone). Tra le riscritture del mito di Medea, questa s’inserisce dunque nella corrente che si concentra sulla figura della straniera, emarginata, sfruttata, privilegiando perciò l’attenzione sociologica alla realtà, indugiando poco sull’introspezione e l’analisi dell’istinto materno (o della sua negazione). A questi aspetti si sono invece rivolte altre scritture, anch’esse sollecitate dalla realtà e dalla cronaca: da ultimo, ad esempio, From Medea. Maternity blues (2002) di Grazia Verasani, che imbocca il racconto delle conseguenze della metafora mitica. Qui il gesto di Medea è riflesso nella vicenda di quattro donne rinchiuse per ciò che hanno commesso in una cella di un ospedale psichiatrico giudiziario. La pièce, da cui è stato tratto anche il film omonimo di Fabrizio Cattani nel 2011, è andata in scena all’Out Off di Milano nel 2015 per la regia di Elena Arvigo.
[S. F.]
Maddalena Giovannelli e Sotera Fornaro
Medea su viale Zara
ideazione e regia Gianpiero Borgia
di Elena Cotugno in collaborazione con Fabrizio Sinisi
con Elena Cotugno
scene Filippo Sarcinelli
musiche Papaceccio MMC
luci Pasquale Doronzo
Produzione Teatro dei Borgia
visto dal_18 al 20 aprile 2017 al Teatro Libero di Milano