regia di Moni Ovadia
adattamento di Moni Ovadia, Mario Incudine, Pippo Kaballà
visto nell’ambito della 51a edizione del Ciclo di rappresentazioni classiche di Siracusa _ 15 maggio – 28 giugno 2015
“Il teatro greco era canto – e perciò diversissimo dal nostro. Un greco antico che entrasse in sala durante la messa in scena di un dramma moderno, abituato alla voce musicale della sua tragedia, lo troverebbe assai triste. Quante parole, direbbe, eppure il dramma rimane così muto! Quant’è cupo il vostro teatro, privo di toni! Voi moderni gridate, sospirate, strepitate, muovete le braccia, corrugate i tratti del volto, fate gran ragionamenti, declamate: dunque la vostra voce non diverrà mai canto? Quanto diverso era in Atene! Pensate a quel canto continuo, in crescendo, sempre diverso, ora accompagnato da flauti, ora da altri strumenti, come richiedeva la scena e la passione, ascoltate quel canto, ascoltatelo nel cuore, nello spirito; sul vostro teatro, allora, si stenderà solo silenzio!”. Così scriveva, nel 1803, il filosofo Johann Gottfried Herder, dando voce enfatica a riflessioni del suo tempo: che i Greci, con il loro teatro, avessero inventato il melodramma; che nella tragedia greca musica, canto, danza e recitativo fossero legati in armonia; che “il ritmo fosse l’anima della tragedia, anzi l’anima di tutta l’arte di vivere greca”.
Da quella temperie nacque la ‘musica da scena’ di Felix Mendelssohn per l’Antigone (1841), da divertimento privato per la corte prussiana divenuto poi uno strepitoso successo europeo: allora per la prima volta il potere evocativo del testo antico veniva reso dall’interazione tra musica e parole, che nondimeno determinano il colore, la tinta musicale e lo stato d’animo dei personaggi. Ed è “con gioia irrefrenabile” che Mendelssohn si lasciò trascinare dal mistero della musicalità dei versi antichi, senza pensare “alla singola parola”, ricreando l’esperienza estetica della performance greca, dove ascolto e visione si realizzavano in un cosmo inscindibile.
Moni Ovadia ha colto il mistero estetico della tragedia greca nella sua coraggiosa edizione siracusana delle Supplici di Eschilo, sulle musiche di Mario Incudine e Pippo ‘Kaballà’ Rinaldi. Le Supplici, lo ricordiamo, andate in scena ad Atene nel 463/2 a.C, raccontano delle 50 figlie di Danao, di stirpe argiva ma dalla pelle scura, in fuga dai feroci cugini egiziani che vogliono obbligarle alle nozze. Le donne giungono per mare dall’Africa col padre Danao alla corte del re Pelasgo e implorano accoglienza alla città di Argo.
Quello di Ovadia è uno spettacolo al quale inutilmente chiedere il rispetto del testo (in parte traduzione in siciliano della traduzione di Guido Paduano) e delle convenzioni rappresentative spesso tradizionali nella rassegna siracusana. La mistione linguistica (siciliano, greco moderno, arabo) adottata da Ovadia (qui anche nel ruolo di Pelasgo) non soddisferà certamente i puristi d’ogni sorta, eppure l’emozione travalica il testo. Lo spettatore non ha alcun bisogno di comprendere ma ugualmente sente e vede: si immerge, così, in una conflittuale koiné mediterranea, pervasa da un identico afflato religioso dai risvolti inquietanti e minacciosi, testimoniato da grandi idoli dai tratti africani ma anche nuragici. Una koiné arcaica e contemporanea insieme, ove per comunicare il gesto spesso risulta più importante ed efficace della lingua, ove le voci cantate si intrecciano come echi di lontane fiabe, di ataviche preghiere, di vicine invocazioni d’aiuto, di incombenti urla di guerra.
Il siciliano degli attori non suona affatto artificiale, e nemmeno un semplice omaggio all’occasione e forse agli abitanti di Lampedusa, i soccorritori d’oggi: ma è piuttosto musica, sembra scaturire dalle rovine del teatro, dal cielo che s’indora all’orizzonte, dall’ululo delle sirene del traffico della città moderna che violenta il silenzio assorto del teatro; il siciliano diventa – direi – la lingua nascosta delle cose, un elemento dell’ irrepetibile hic et nunc della rappresentazione.
Altrettanto ozioso sarebbe interrogarsi sul preciso senso attuale del mito suggerito da Ovadia: vi è il dramma della migrazione e quello, politico, dell’accoglienza; vi è la fragilità della donna nei paesi africani ma non solo, la cieca violenza maschile, quella militare, i terrori della guerra e delle persecuzioni, il rispetto come legge non scritta, il dovere etico di ospitalità e di sostentamento; vi è anche la retorica della democrazia e della libertà. Non ultima la trovata ad effetto di un Eschilo redivivo, che si presenta parabaticamente al pubblico nei panni di un cantore siciliano e indica come suoi amici ragazzi di colore seduti in platea, a cui va un applauso partecipe – nonostante sparuti spettatori delusi gridino, non si sa bene a chi, se a Ovadia o a Eschilo o a chi applaude, ‘populista!’
Uno spettacolo, dunque, trascinante, che purifica in senso aristotelico, tiene con il fiato sospeso quando gli Egiziani avanzano e danno la caccia alle donne, preda che vogliono ad ogni costo riprendersi. Spettacolo che sconvolge al ritmo talora selvaggio delle danze e dei movimenti scenici; che impaurisce, quando l’araldo egiziano (un convincente Marco Guerzoni) alterca con Pelasgo e irrompe con il suo esercito di occupazione in scena. Uno spettacolo che più spesso commuove, specie nell’interpretazione intensa della corifea, Donatella Finocchiaro, e specie quando questa dichiara quanto la morte sia preferibile all’unione forzata con un uomo che non si ama: e siamo in una terra che di matrimoni obbligati e d’ ‘onore’ ne ha visti infiniti.
Molto si può obiettare: che l’angoscia della scelta di Pelasgo risulti edulcorata e le motivazioni politiche dell’accoglienza messe in ombra; che la tragedia sembri persino avere un lieto fine, mentre in Eschilo così non è, dato che il destino delle donne rimane segnato dalla necessità; che l’idea non sia originale: vi sono già state, infatti, rivisitazioni delle Supplici con l’occhio rivolto alla tragedia degli sbarchi siciliani. La musica popolare che tutto avvolge, la ‘cornice’ delineata dal cantastorie siciliano (un gigantesco Mario Incudine), potrebbe infine sembrare straniante, come parve, mutati i gusti teatrali, anche la musica di Mendelssohn, a proposito della cui Antigone un critico scrisse: “v’è un piacere molto più profondo e puro nella silenziosa lettura del testo originale di Sofocle o persino di una buona traduzione, che non nella messa in scena con una musica attuale e superflua”.
Molto si può obiettare e si obietterà: ma lo spettacolo di Ovadia tuttavia si impone e imprime una profonda traccia nella memoria e nella coscienza del pubblico. Al confronto, le altre due messe in scena di questa 51a edizione del Ciclo di rappresentazioni classiche di Siracusa, la convenzionale Ifigenia in Aulide di Federico Tiezzi e la pretenziosa Medea senecana di Paolo Magelli, impallidiscono.
Sotera Fornaro