«Un individuo simile nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta ammogliato, per trasformarsi unicamente in un’appendice della moglie, anche quando egli abbia una personalità sua, ben determinata». È questo il profilo di Pavel Pavlovic, l’eterno marito che dà il titolo al romanzo di Dostoevskij: un uomo definibile solo in funzione della compagna di vita, per il quale lavoro, status sociale e persino occasioni mondane hanno i connotati di doveri matrimoniali. Rimasto vedovo, giunge a San Pietroburgo e, ubriaco, nel cuore della notte, irrompe nell’appartamento di Aleksej Vel’caninov, amico della coppia che, fino a nove anni prima, era stato anche l’amante – più o meno segreto – della donna. Già nei primi scambi di battute serpeggia tutta l’ambiguità che contraddistingue il loro rapporto: il marito ha mai sospettato qualcosa? È ancora una vittima o il suo arrivo preannuncia una punizione in grado di mutarlo in carnefice? Nella messa in scena di Claudio Autelli, che parte dal libero adattamento di Davide Carnevali, la doppia natura dei protagonisti si nutre dello sconfinamento verso le biografie degli interpreti: un meccanismo di autofiction che non esita a ritoccare alcune descrizioni del testo di partenza per meglio proiettare i personaggi del romanzo sui rispettivi attori. Così, l’Aleksej incarnato da Francesco Villano ha 49 anni (dieci in più rispetto a quello dostoevskiano), è slanciato e brizzolato (invece che tarchiato e biondo), piacente nonostante l’aspetto trasandato, «quasi hipster», forse grazie alla sua aura da intellettuale. A tratteggiarlo con pungente ironia ci pensa Ciro Masella, che innerva il suo Pavel di un’indole costantemente in bilico tra presunta ingenuità e strisciante perversione.

foto: Francesca Ferrai

La sapienza attoriale con cui Villano e Masella lasciano trapelare la propria personalità mentre si spalleggiano, si stuzzicano e si fronteggiano, gestendo cambi di tono e di atmosfera, valorizza la vena comica che attraversa più sommessamente l’opera di Dostoevskij e ne esalta una certa vocazione alla teatralità. L’intelaiatura istrionica, a tratti farsesca, su cui poggia il romanzo, è infatti assecondata dalla scenografia, curata da Maddalena Oriani, che si articola su due livelli: un salotto ottocentesco, in linea con l’ambientazione pietroburghese, si inserisce così all’interno dell’architettura del teatro, mostrata nella sua nudità per enfatizzare la dimensione su cui l’adattamento di Carnevali introduce i maggiori elementi di originalità.
Se già in Dostoevskij Aleksej «si lagnava di aver perduto la memoria», ora le amnesie si legano al mestiere dell’attore e incidono sull’andamento della storia: «colpa mia, mi son dimenticato questa scena, fai come fosse un flashback», esclama Villano quando gli viene chiesto conto della mancata restituzione di un braccialetto. L’attenzione agli aspetti metateatrali è rivelata anche dai ripetuti riferimenti agli spazi attigui al palco (le quinte, i camerini, i bagni), che talvolta vengono percorsi e abitati come se facessero parte dell’intreccio di partenza. Ed ecco che il camerino di Masella rimpiazza la modesta stanza dove Aleksej va a stanare Pavel (che per mancanza di budget non beve champagne, ma un prosecco della Lidl); nella platea a lungo illuminata, Villano intona Non arrossire di Gaber, invitando a danzare con lui alcune spettatrici.
Durante le incursioni negli spazi extra-scenici, gli attori sono anche operatori live: riprendendosi con una piccola telecamera mostrano luoghi altrimenti inaccessibili allo sguardo del pubblico e, allo stesso tempo, si pongono in dialogo con la cornice filmica in cui è inserita la pièce, aperta – in modo forse un po’ didascalico – dai titoli di testa e conclusa da un video che ne segna l’epilogo. La mescolanza tra linguaggio teatrale e cinematografico pone l’accento sul problema della percezione e rappresentazione di sé stessi, trasformando l’incontro tra i protagonisti in uno specchio deformante: i due uomini, che in qualità di personaggi si studiano a vicenda e in qualità di attori sono costantemente osservati con uno spirito quasi voyeuristico, testimoniano l’incessante sforzo con cui si tende a “performare” anche nella quotidianità.

foto: Francesca Ferrai

Ma cosa succede se l’esigenza di costruirsi un’immagine ideale determina uno scollamento dalla realtà? Sebbene Pavel e Aleksej siano opposti che si attraggono, amici-nemici complementari l’uno dell’altro, entrambi sono accomunati da una visione ombelicale, che impedisce un’assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni. Troppo concentrati su sé stessi, come fossero dei narcisi adolescenti, non sono in grado di prendersi cura nemmeno di una bambina, Lisa, figlia di uno dei due: non hanno compreso la sofferenza della piccola, che muore lontano dalla sua casa e dai suoi affetti, affidata a un’amica di Aleksej. Se questo tragico epilogo mette in luce l’incapacità di essere padri in senso letterale, nella seconda parte dello spettacolo l’adattamento di Carnevali insiste sulla possibilità di assurgere al ruolo di guida, esplicitando riflessioni che nel romanzo di Dostoevskij lavorano in maniera più sotterranea. La natura del turbolento rapporto tra i protagonisti assume i contorni di una delusione dovuta, più che a un tradimento amoroso, a una sensazione di inferiorità che Pavel avverte nei confronti di un modello da emulare: «ti invidio, cercavo di imparare da te, ti consideravo un maestro più che un amico», ammette di fronte all’ennesima sconfitta inferta dal fascino imbattibile di Aleksej. Proprio mentre l’eterno marito sta verbalizzando il suo malessere per lo sgretolamento di un punto di riferimento, viene bruscamente interrotto dalla platea: il giovane Lubov (Simone Laviola) dichiara il suo amore per la ragazza con cui Pavel si è fidanzato e contemporaneamente rivendica il posto che gli spetta nella società. Dopo aver intimato al rivale di sgombrare il campo, la lunga filippica giunge a rinfacciare le colpe dei “padri”, inadeguati tanto nell’esercitare la cura quanto nel sapersi fare da parte e passare il testimone. Eppure, il duro attacco della nuova generazione non sembra sortire alcun effetto. Quando, dopo due anni, Pavel e Aleksej si incontrano in stazione, sono ancora intrappolati nei loro ruoli di eterno marito ed eterno amante: l’uno viaggia in compagnia della seconda moglie, l’altro è in partenza per combinare un incontro con una donna, ma non si lascia sfuggire l’occasione di mostrarsi galante con la nuova consorte. La composizione ad anello della narrazione non fa altro che rimarcare l’inettitudine dei protagonisti: il circolo vizioso in cui sono avviluppati sembra castrare ogni tentativo di cambiamento e lascia negli spettatori un senso di impotenza dal retrogusto amaro.

Nadia Brigandì


in copertina: foto di Francesca Ferrai

L’ETERNO MARITO
da Fëdor Dostoevskij
libero adattamento Davide Carnevali
regia Claudio Autelli
con Ciro Masella e Francesco Villano
in video Sofija Zobina e Lia Fedetto
scene Maddalena Oriani
disegno luci Omar Scala
musiche originali e sound design Gianluca Agostini
costumi Margherita Platé
film-making Alberto Sansone
responsabile tecnico Emanuele Cavalcanti
assistente alla regia Valeria Fornoni
organizzazione Daniele Filosi e Dalila Sena
ufficio stampa Cristina Pileggi
produzione Teatro Franco Parenti / LAB121 / TrentoSpettacoli
con il sostegno di NEXT laboratorio delle idee per la produzione e programmazione dello spettacolo lombardo, edizione 2022/2023 | Regione Lombardia; Fondazione Caritro | Provincia Autonoma di Trento; Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento