Rassegna dedicata alla Compagnia Scimone Sframeli
vista al Teatro Arena del Sole di Bologna_11-16 aprile 2016
Repliche di Amore all’Elfo Puccini di Milano_ 2-8 maggio 2016
Come può il teatro resistere alla forza del tempo? Parrebbe, a prima vista, un interrogativo di non facile risoluzione. Eppure, esistono esperienze sceniche capaci di tradurre questa stessa domanda, non per esaurirla, ma, piuttosto, per alimentarla. Così è accaduto per la Personale dedicata ai Premi Ubu Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che ha voluto omaggiare la compagnia proponendo quattro celebri spettacoli, Nunzio (1994), Bar (1997), Pali (2009), Amore (2015). Un’iniziativa promossa da Arena del Sole e dall’Università di Bologna che, mediante il Centro di Promozione teatrale “La Soffitta”, ha contribuito alla rassegna con il progetto intitolato Corpi Eloquenti. Nel programma anche la proiezione del film Due amici – sempre per la regia del duo e miglior opera prima alla Biennale di Venezia del 2002 –, il laboratorio Fare teatro è come fare l’amore e un incontro conclusivo tenuto dal curatore del progetto Gerardo Guccini.
Sarà per la formidabile abilità drammaturgica di Scimone e Sframeli o sarà forse per l’urgenza di esibire le contraddizioni e i paradossi di un vivere comune, che la rassegna trova un suo senso di continuità, per usare le parole di Sframeli, “in quella ricerca della terra, delle periferie, dei malumori” che fin dagli esordi contraddistingue il lavoro del duo. Emergono così fin dal principio, e proprio dal titolo Corpi Eloquenti, alcuni concetti che stanno alla base della poetica della compagnia; innanzitutto il corpo, radice-motore da cui si origina una parola che sa farsi tagliente propagatore di senso; come confida il regista/attore infatti “è il corpo che racconta: non si blocca ma si mette in gioco per trasformarsi e tradursi in parola”. C’è poi il tempo, quell’entità all’apparenza inafferrabile che serpeggia stridente in tutte le opere proposte dalla rassegna, quasi a ricordare la possibilità, per un certo modo di fare e concepire la scena contemporanea, di riuscire a imbrigliare quei paradossi del vivere quotidiano in un continuo e perdurante presente. Proprio nel mezzo di una presunta linearità temporale si inserisce il lavoro della compagnia che propone un nuovo modo del narrare contemporaneo.
A tracciare connessioni e spunti differenti ma complementari è stato anche il laboratorio Fare teatro è come fare l’amore, condotto dalla coppia e rivolto agli studenti dell’Università di Bologna. Un’occasione per conoscere da vicino l’arte del duo basata sulla relazione e sull’incontro fra tre corpi: quello di autore, attore e spettatore. Un’idea di teatro che, lontana da una rappresentazione naturalistica, sia piuttosto, citando ancora Sframeli “la materializzazione in scena di qualcosa di inspiegabile che forse non si può nemmeno insegnare o tradurre a parole, ma solo concretizzare”.
Se il corpo è lo spunto da cui scaturisce creazione artistica, la parola diventa una sorta di linea che unisce ed espande il corpo dell’attore, puntellandolo di significati e al contempo oltrepassandolo. Si ha spesso a che fare con una parola che “immobilizza”, pronunciata in uno schietto dialetto messinese, come accade in Bar, dove i protagonisti paiono immersi in un’irrisolvibile attesa, inghiottiti da un non-tempo. L’a-temporalità ritorna in Nunzio, nella solitudine di due uomini incapaci di decidere del loro destino, in una situazione senza vie di uscita. Così in Amore, due coppie, vecchietto/vecchietta e comandante/pompiere, ricordano un amore ormai sfumato, immersi in un cimitero costellato da uno sfondo roccioso, richiamo di un possibile limen tra vita e morte.
Si resta spesso imbrigliati in una parola che si ripete costantemente, di cui si scavano i significati per suggerirne possibili e mai esauribili rimandi. Come accade in Pali, Premio Ubu 2009 per il Miglior Testo italiano. In scena, quattro uomini, due spettatori sui pali, due musicisti a terra: l’uno suona, l’altro lava i panni convulsamente, azioni-nevrotiche estremizzate, sintomo di una società che li vuole automi-recettori di un perpetuo fare senza motivo. Suonano infatti solo “per entrare”, non si sa dove, e per divertire il pubblico “fino a perdere completamente il fiato”. Ma i due spettatori posti come vedette sui pali non si divertono, intimano ai suonatori di smettere e invitano i due a rifugiarsi lassù “dove puoi fare tutto quello senti e dove per stare vicini bisogna mettersi d’accordo: i pali sono di tutti, tutti possono salire sui pali”. Allora i musicisti salgono sull’unico palo disponibile, diventando così spettatori della società che vogliono rifuggire. Mentre osservano quanto li circonda, tutti aprono l’ombrello: “Con questo cattivo tempo bisogna solo aspettare che pioverà”. “Ma che cosa pioverà?”
Pali riassume le caratteristiche proprie del teatro beckettiano, senza fermarsi ad esso ma oltrepassandolo, suggerendo il potere del dissenso e della ribellione. Sono “corpilingua”, emblema di un malessere sociale che attraversa il corpo per tradursi in un’inscindibile concatenazione di frasi in cui è la parola stessa a giocarsi un ultimo tentativo di significazione. Il paradosso, il nonsense ma anche l’inspiegabile vengono tradotti nell’affresco cristallino di un eterno presente, svelando con forza le sopraffazioni e le umiliazioni di una società a cui i protagonisti decidono di sfuggire, ribellandosi e rifugiandosi sui pali, come in una terra di confine dove forse un altro vivere è possibile.
La compagnia Scimone Sframeli dimostra di essere traduttrice visionaria di un presente liquido e sfuggevole. Riproponendo lavori nati in tempi distinti, ma tutti accomunati da una compresenza corpo-parola, il duo mette in scena un reale frammentato, impossibile da ricomporre in tutti i suoi incastri. Il taglio è sempre ironico e dissacrante; per ridere, con la consapevole amarezza dell’essere tutti, nessuno escluso, gli oggetti di quel riso.
A questo stesso immaginario rimandano le solitudini irreparabili di Nunzio, i corpi che giacciono sdraiati in Amore, i due non-eroi di Bar che attendono un qualcosa che non arriverà mai, o le quattro vedette di Pali che spiano la pioggia mentre attendono che dal cielo arrivi qualcosa.
Il teatro di Scimone e Sframeli mostra quanto nella drammaturgia contemporanea una tessitura che prende vita sul confine tra corpo e testo offra spunti capaci di trasformarsi in sguardi visionari e geniali per un tempo che mai si immobilizza ma resta fervida temporalità in transito, perché malleabile allo sguardo dello spettatore: come suggerisce Francesco Sframeli “Non è più tempo di chiudersi. Mettiamoci in cammino. È tempo di andare”.
Carmen Pedullà