Visto al Teatro Franco Parenti di Milano_17–28 ottobre
Di e con Elisabetta Vergani
Regia di Maurizio Schmidt
La panchina che campeggia sulla scena è quella sulla quale Antonia Pozzi si sedeva a Pasturo.
Elisabetta Vergani non si è accontentata delle lettere, dei diari, delle poesie di Antonia Pozzi; è andata a cercare lei: fra le “mamme montagne” (la Grigna), nell’amatissima casa di Pasturo, vicino a Lecco, nel liceo Manzoni, lungo le piane lombarde che Antonia attraversava in bicicletta, nella casa paterna di via Mascheroni e in quella di Corvetto a Milano. Fino a Chiaravalle, dove andò a morire nel dicembre del 1938, a ventisei anni.
Ed è il 2 dicembre 1938, il giorno precedente il suicidio di Antonia, che viene scelto come momento d’inizio della narrazione, per poi tornare indietro agli anni del liceo, a quelli dell’università (assieme a Paci, Cantoni e Formaggio), con un flashback insieme intimo e violento. Non si tratta di un racconto: Elisabetta Vergani si fa pro-feta di Antonia Pozzi e parla per lei, a nome suo, chiedendole in prestito le parole dalle lettere, dai diari, dalle poesie.
Così in scena c’è l’attrice, ma anche la poetessa, in un unico corpo, in una sola veste leggera, che Vergani sa vestire con rispetto, con pudore, con la delicatezza di chi ha cercato e trovato un’anima affine e ora la vuole celebrare riportandola in vita attraverso di sé. La accompagna al pianoforte Filippo Fanò, che tace soltanto quando la prosa si fa poesia. E’ allora che l’altezza delle parole di Antonia Pozzi, rivivendo in voce viva, divampano di bellezza e come fuoco contagiano.
Per contro, la scena è scarna ed essenziale, quasi monocromatica: luce, ombra, grigio. Il piccolo spazio della scena trova respiro più ampio grazie al sapiente e ricco uso delle luci di Paolo Latini, che ritaglia dimensioni puntiformi e cangianti attorno all’attrice, trasformandole in scenografia. Sullo sfondo le sorprendenti fotografie della poetessa: la pianura pavese, le montagne, la periferia; vedendole, una volta un parroco le disse: “Lei ha visto, ha vissuto tutto! Cosa chiede ancora alla vita?”.
Elisabetta Vergani rifugge qualsiasi occasione di chiacchiera scandalistica attorno ad Antonia Pozzi, evoca appena il suicidio e la scomoda relazione con il professore di liceo, molto più grande di lei.
Quello che vuole restituire è il fremere palpitante di questa donna, che la conduceva a vette estatiche e la faceva battere al ritmo della terra e del fango, poetessa delicata (“un fioco bianco in cuore all’azzurro”) ed estrema, mescolanza di sacro e di punk, morta “per troppa vita che ho nel sangue”.
Grande è il merito di Elisabetta Vergani per aver rianimato la “vita più profonda” della Pozzi: la sua poesia. Il sincero coinvolgimento dell’attrice riesce a mettere in secondo piano alcuni squilibri nell’interpretazione, talvolta eccessivamente stralunata, nervosa o fanciullescamente esaltata.