Il linguaggio performativo è costituito da sistemi di codici diversi, che ognuno di noi ha imparato ad assimilare e a leggere col tempo, in misura differente e attraverso le diverse esperienze della propria vita. La natura effimera di questo linguaggio ci porta ogni volta a osservare i contesti e a interpretare i codici della situazione specifica in cui ci troviamo: studiamo lo spazio, attendiamo l’inizio della performance e ne immaginiamo il processo. 

Entrando in sala per vedere Chiara Ameglio nel suo Lingua – una produzione Fattoria Vittadini e Festival Danza in Rete, andato in scena all’interno della rassegna Quasi solo di CLAPS presso La Fabbrica del Vapore – si percepisce il fermento di un pubblico che, guardandosi intorno, tenta di capire cosa stia per succedere. Si può scegliere se accomodarsi sui cuscini sistemati sul pavimento, che delimitano uno spazio profondo un paio di metri e ben più piccolo di quello dedicato agli spettatori, oppure sulle sedie, più distanti dalla scena. La prima fila di cuscini si riempie per ultima, forse perché troppo a ridosso di quel palco inconsueto. Il senso di prossimità è d’altra parte confermato anche nei primi istanti della performance, durante i quali le luci non si spengono ma si fanno soffuse, e Ameglio conquista lo spazio avvicinandosi e guardandoci negli occhi, uno alla volta, uno per uno.

foto: Sara Meliti

Ben presto allo sguardo si accosta una nuova relazione: la performer impugna un pennarello nero, con cui inizia a disegnare il proprio corpo, per lo più scoperto. La semplicità e la pulizia delle azioni ci permettono di concentrarci su questa nuova informazione: sembra che siano i segni neri ad attivare i movimenti, e viceversa, in una reciproca interazione tra la traccia concreta dell’inchiostro sulla pelle e la traccia virtuale dei gesti nello spazio. Esattamente come quando, studiando una nuova lingua, apprendiamo con la pratica ad associare i segni ai significati, qui impariamo come il segno grafico del pennarello possa indicare una parte del corpo o un’azione, un livello spaziale o una qualità del movimento. 

Quando Chiara invade lo spazio dedicato agli spettatori non ci sembra più così strano: il sistema di riferimento creato dalla costruzione delle sue relazioni con noi ci aveva già preparato a questa eventualità. La danzatrice si sdraia tra noi e con lo sguardo, col vagare della mano, con l’attitudine corporea riesce a farci comprendere l’invito: così uno spettatore impugna il pennarello e inizia a sua volta tracciare segni sul corpo della performer, che si avvicina, crea contatti e ascolta, dà spazio al pubblico. Il pennarello passa di mano in mano col danzare di Chiara, il suo corpo – così vicino da avvertirne il respiro – inizia ad assomigliare a una mappa geografica, i cui confini rivelano il passaggio degli spettatori. Una volta pienamente sviluppato il sistema di relazioni che permette l’interazione, Chiara inizia ad aumentare la dinamica in gioco, sviluppando un dialogo col pubblico attraverso task condivisi. Gli spettatori si fanno così più coraggiosi, la sfidano con intensità diverse del movimento con cui tracciano la linea, con forme e idee più complesse. Ameglio accetta ogni idea con grande apertura, permettendo allo spettatore di essere allo stesso tempo coreografo e interprete, in una conversazione che invita a un cambio di prospettiva e stimola una fruizione realmente attiva nella costruzione della performance . 

foto: Sara Meliti

La riflessione sul linguaggio performativo è stata concretamente donata alle mani del pubblico che ha potuto farne parte sperimentando, guidando e divertendosi: forse per questo gran parte del pubblico sorride mentre applaude. Ci sembra di conoscere meglio Chiara, adesso; ci sembra di aver avuto un contatto reale e intimo con l’artista e con la sua idea. Ci sembra di aver parlato la sua Lingua. 

Shahrzad M.


foto di copertina: Sara Meliti

LINGUA
di e con Chiara Ameglio
in collaborazione con Santi Crispo
musiche Keeping Faka
produzione Fattoria Vittadini/Festival Danza In Rete