di Anagoor
visto all’Elfo Puccini di Milano_5-19 gennaio 2014
in replica presso Teatro Palamostre di Udine_25 gennaio 2014
e presso il Teatro Rossini di Pesaro_ 31 gennaio 2014

La poetica di Anagoor, originata da un’appassionata esplorazione dell’opera di Eschilo, che ha lasciato tracce visibili anche nei successivi lavori, è andata via via consolidandosi in produzioni di grande rigore e raffinatezza figurativa, caratterizzati da una cifra coerente, forse intellettualistica, che riusciva però, ogni volta, a risolversi in pura teatralità.
Ripenso a Jeug*, al fascino che emanava dall’accostamento fra il lucido mantello della cavalla e il corpo nudo della donna che ad essa si affidava; alle variazioni plastiche e pittoriche ispirate all’enigmatico capolavoro del Giorgione ne La tempesta; ai fantasiosi cromatismi e alle invenzioni, quasi da Wunderkammer veneziana, di Fortuny.
A una prima lettura il loro ultimo spettacolo, Lingua imperii, sembrerebbe prendere le distanze dal mondo storicamente e geograficamente più consono alla compagnia di Castelfranco Veneto. Ma così non è, come mi fa notare Simone Derai (classe 1975, cultura filologica classica, fondatore del gruppo, assieme a Paola Dallan, nel 2000): “I nostri spettacoli son legati da un filo rosso, che è una riflessione sulla diversità. Abbiamo indagato il contrasto tra l’uomo e la natura in Jeug*; abbiamo guardato a Giorgione come a un diverso nella sua terra ne La Tempesta; in Fortuny, abbiamo cercato di osservare la nostra Venezia con gli occhi di uno straniero. Adesso ci concentriamo invece sulla differenza linguistica, come pretesto per una discriminazione razziale”.

In effetti, nella costruzione di questo lavoro la compagnia prosegue lungo la medesima linea. Traendo una sollecitazione dalla lettura del monumentale Le benevole dello scrittore anglo-francese Jonathan Littell, lo spettacolo affonda le sue radici nelle pregresse frequentazioni classiche: non si tratta solo delle citazioni eschilee, ma è la struttura stessa a evocare la tragedia attica con un’alternanza di episodi e stasimi, cioè di momenti dialettici che parlano alla ragione, e di costruzioni figurative corali che sollecitano le emozioni. La parola prevale negli stasimi, ma l’incrociarsi dei linguaggi espressivi spariglia ulteriormente le carte, alternando e intrecciando l’uso del video alla presenza attorale viva.

In apertura, uno schermo ci restituisce, nell’originale tedesco (tradotto da efficaci e puntuali sottotitoli), la discussione fra due ufficiali. L’uno è un capitano delle SS; l’altro, un tenente studioso di glottologia, impegnato in una dissertazione sulla babelica situazione linguistica del Caucaso, dalla quale il primo vorrebbe ricavare qualche base scientifica che giustificasse l’annientamento di una popolazione ritenuta appartenere al ceppo ebraico. Segue un momento corale, ove quello che appare un rituale bucolico si risolve nella truce composizione di un intreccio di corpi ammassati gli uni sugli altri, come esito di una esecuzione di massa.

Lo spettacolo, più che secondo una logica narrativa, sembra procedere per accumulo, lungo un itinerario ove emotività e ragione si intrecciano, e lo stesso ricorso all’immagine proiettata serve sia la razionalità, sia la pura suggestione figurativa. Alle varie fasi della discussione fra i due militari si contrappongono ora momenti coreutici, ora il passaggio di un gregge di pecore, che mostra anche la violenza del cane da pastore. Il racconto asciutto e distaccato delle atrocità della storia – sia antica e leggendaria, sia contemporanea – è affidato alla parola di un moderno Nunzio (Marco Menegoni), mentre il canto dal vivo, ora solistico e dispiegato (il fascinoso registro vocale dell’armena Gayanée Movsisyan), ora corale, costituisce un’ulteriore variazione sul tema. Ed è ancora lo schermo a sciorinare una singolare serie di ritratti (accarezzati da una luce che sembra uscire dalla tradizione fiamminga), dove l’indifesa tenerezza di volti adolescenziali, stravolta da incongrui oggetti costrittivi (come il morso imposto al cavallo, o l’anello al naso del bue da lavoro) ci parla di una crudele, assurda violenza dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo.
Questa sconvolgente alternanza di immagine, canto, coreutica, di simboli a volte criptici, ma proprio per ciò ricchi di suggestioni, si chiude con un’ultima immagine di bellezza: un cervo, ai margini di un bosco in montagna, che guarda a lungo in macchina con insolente, sublime noncuranza, fino a volgere le terga e uscire di scena.
Un lavoro certo non facile, di un impatto emotivo che, pur alieno da qualsiasi effetto grand guignol, obbliga a riflettere su uno dei temi etici più importanti da rimettere al centro di questa nostra disattenta cultura odierna.

Claudio Facchinelli