adattamento e regia di Claudio Autelli_ Lab121
visto al Teatro Litta di Milano_ 1-10 aprile 2016

Cosa accade nella mente umana quando la realtà sfuma e perde i contorni? Quando il dubbio intacca la nostra percezione delle cose?
Claudio Autelli – attivo a Milano con la realtà di produzione e formazione LAB 121 – sembra da tempo interessato a quella sottile linea che separa interno ed esterno, il nebuloso e denso panorama interiore e la malferma certezza della quotidianità: dal più recente Insonne, al precedente Risveglio di Primavera (qui la recensione di Stratagemmi), il regista privilegia paesaggi scenici ombrosi e onirici, dove i personaggi si muovono come fantasmi e tutto sembra svolgersi in un fragile recinto mentale.

A questo orizzonte registico antinaturalistico e quasi espressionista ben si adattano le atmosfere febbrili dell’Inquilino del terzo piano di Roland Topor, dove un normale problema relazionale con il vicinato si trasforma in un incubo perturbante. Trelkovsky (Michele Di Giacomo), appena entrato in possesso nel suo nuovo appartamento, si ritrova in un habitat silenzioso e ostile, dove non sono benvenute le famiglie con bambini ma neanche i single con ospiti occasionali, e ogni manifestazione dell’esistenza umana pare in qualche modo sgradita. Progressivamente le mura della casa, i sorrisi dei vicini, i rumori di tutti i giorni si trasfigurano fino a diventare un setting dell’orrore.
Tutto contribuisce a far precipitare la vicenda lungo uno scivoloso piano inclinato: il testo essenziale, adattato dallo stesso Autelli (che si era già messo alla prova con la narrazione di Agota Kristof e Tolstoj), si rivela una micidiale macchina di senso, i volti lividi degli attori paiono maschere grottesche, il bravissimo Michele Di Giacomo trasforma lo spaesamento in alienazione, e l’alienazione in schizofrenia.
Un ruolo non indifferente, in questa prospettiva, acquisisce anche la bella scenografia di Maria Paola Di Francesco che, proprio come il testo, indugia sui dettagli del quotidiano fino ad alterarli: al centro dello spazio, un mobile girevole a due ante – che assolve alle funzioni di porta, armadio e credenza – rappresenta in realtà l’ambiguo accesso all’universo psichico di Trelkovsky.

Autelli si conferma, con questa sfida impegnativa, un regista dalla mano esperta e ferma, capace di gestire complesse stratificazioni semantiche e di tenere insieme efficacemente le partiture testuali e visive: una consapevolezza non così frequente tra i colleghi suoi coetanei. Certamente in questo caso la chiave interpretativa scelta – tutta tesa a guidare lo spettatore in un rarefatto mondo interiore – non permetteva scarti di registro o di ritmo troppo decisi; ed è lo stesso Topor a condurre il gioco in questa direzione, sui toni uniformi dell’angoscia e dell’oppressione. Ma non ci dispiacerebbe ritrovare, nelle prossime prove di Autelli, anche i timbri giocosi del bellissimo La licenza (2008), e scoprire la sua regia alle prese con atmosfere meno dense e sature. Chissà che il prossimo Ritratto di donna araba che guarda il mare – testo con cui il giovane Davide Carnevali si è aggiudicato il premio Riccione – offra questa opportunità.

Maddalena Giovannelli