È una fortuna che i momenti per incontrare il lavoro del drammaturgo e regista franco-uruguayano Sergio Blanco si siano rapidamente moltiplicati da quando, l’anno scorso, è stato presentato per la prima volta in Italia.
Da allora lo abbiamo incontrato con Il Bramito di Dūsseldorf al teatro Storchi di Modena durante il Festival VIE, edizione 2019 (quella del 2020 è stata annullata); lo abbiamo visto anche come interprete, a Bologna, all’oratorio San Filippo Neri, nella conferenza-spettacolo Las flores del mal o la celebración de la violencia, ospite di PerformAzioni International Workshop Festival; abbiamo infine assistito alla messa in scena del suo Tebas Land secondo la regia di Angelo Savelli, al teatro Rifredi di Firenze.
In un universo parallelo in cui i mesi e i progetti avessero proseguito il loro corso, e i festival non fossero limitati da un’emergenza sanitaria estenuante, Blanco sarebbe stato impegnato a presentare proprio in questi giorni ad Avignone tre dei suoi lavori, tra i quali l’ultimo, il bellissimo Cuando pases sobre mi tumba (2019).
Ma Blanco non si è comunque fermato di fronte alla malattia e, anzi, ci ha scritto sopra; cancellandola nell’atto di descriverla, nel suo spettacolo COVID-451, pronto a debuttare proprio fra pochi giorni, il 20 luglio, al Festival GREC di Barcellona – rivisto e ricontingentato, ovviamente.
Tra i testi di Blanco che ancora non hanno trovato in Italia una collocazione teatrale c’è invece L’ira di Narciso (La ira de Narciso), pubblicato da Cue Press nel 2019 nella raccolta Teatro. Un testo che insieme ad Autofinzione (saggio dell’autore sempre edito Cue Press, 2019) ci permettono di approssimarci con un certo approfondimento all’opera di Blanco, sia sul versante della produzione che della, fondamentale, riflessione estetica.
Ne L’Ira di Narciso (2015), in particolare – opera interpretata dall’amico e a sua volta drammaturgo Gabriel Calderón – i temi cari a Blanco, imperniati sul concetto di autofinzione, si fanno quanto mai evidenti. Nel testo, un personaggio dal nome di Sergio Blanco viene invitato presso l’Università di Lubiana a tenere una conferenza sul tema dello sguardo, che decide di declinare al mito di Narciso. Le minuziose argomentazioni della sua relazione si intervallano a una routine quotidiana fatta di corse di primissima mattina, conversazioni più o meno inutili con i colleghi di Lubiana e le frequenti Coca Cola bevute a ogni calo di zuccheri, ma anche al racconto degli incontri sessuali con Igor, giovane sloveno conosciuto in un sito di appuntamenti, e, parallelamente, con l’inquietante scoperta di alcune macchie di sangue sulla moquette della sua stanza d’albergo.
In questa lunga relazione, calibrata, formale, compiuta da un unico personaggio al centro della scena, il gioco tra realtà e finzione si fa scivoloso e indecifrabile. Blanco narra in prima persona riferimenti puntuali relativi alla genesi del suo stesso testo (il luogo in cui per la prima volta pensa di scrivere la storia, amici reali con i quali si confronta, i primi contatti via telefono e mail con l’interprete Gabriel Calderón), incalzando il lettore con dati di presunta verità, ma allo stesso tempo formulando continuamente dichiarazioni sfacciatamente false, obbligandoci a rinunciare a qualsiasi tentativo di cernita tra realtà e bugia senza ritegno. Ad esempio Gabriel Calderón ci racconterà in scena con grande candore di come Sergio gli abbia detto per telefono: «Senti, Gabriel, per questo testo dovresti lasciarti la barba». Ce lo riferirà mostrandoci allo stesso tempo un volto liscissimo, reduce, con ogni evidenza, di una meticolosa rasatura. Del resto, come Blanco stesso indica nel suo saggio, se nel genere dell’autobiografia secondo Pilippe Lejeune bisogna instaurare con il lettore un patto di verità, nell’autofinzione è necessario invece stabilire con lo spettatore un solenne patto di menzogna.
Quello dell’infedeltà narrativa è un filtro che invece di allontanare, avvicina il pubblico all’intimità dolorosa del racconto, con un movimento che, compenetrando distanza e prossimità in un’unica pulsazione, agisce a tutti i livelli del testo. Ad esempio, Blanco non si preoccupa dell’effetto di mimesi apparentemente garantito dalla drammaturgia, attingendo invece largamente ai modi della narrativa. Il personaggio di Sergio dichiarerà così immediatamente «Questo non è un monologo. Non è un assolo. Non è un soliloquio. È un racconto». Allo stesso tempo, gli avvenimenti effettivamente non messi in azione, ma già avvenuti e raccontati a posteriori dal narratore («Appena sono entrato ho percepito qualcosa di strano», dirà, invece di entrare in scena compiendo l’azione di guardarsi attorno) si mescolano senza soluzione di continuità ai dialoghi con Igor, con Gabriel, con la madre via Skype, o ancora, con gli estratti della conferenza che di lì a poco dovrà impartire.
L’intessitura composita del testo, che attinge da generi diversi, permette la presenza di digressioni e la commistione di brani di natura diversa, sui quali Blanco non teme (a ragione) di indugiare. Le teorie estetiche del protagonista, i lacerti di disquisizioni storico-letterarie, i frammenti di canzoni, poesie e film di altri autori, dilazionando dolorosamente l’azione drammatica, non fanno che convogliare, catalizzare l’attenzione dello spettatore sulla vicenda che nel frattempo progredisce inesorabile come una morsa. Ancora una volta, la frapposizione di una distanza, quella di elementi estranei allo svolgimento narrativo, che lo costringono a delle pause contemplative, intensifica la sensazione di una estrema, rischiosa vicinanza al racconto. E ancora: il linguaggio raffinato, algido di Sergio Blanco narra con il falso filtro di un’elaborata formalità, contenuti che di filtri, invece, non ne hanno affatto, facendoci esperire degli estremi di intimità tanto improvvisi da risultare spaventosi! Lo spettatore capisce così che non può prevedere cosa arriverà subito dopo: come succede nella nostra mente, non esiste alcuna preparazione al passaggio all’intimità. Il personaggio Sergio Blanco può quindi muoversi da un discorso elevato a un gretto pensiero di sconcertante cinismo; oppure, da una scena di banale quotidianità, può passare senza preavviso a un atto masturbatorio – che nella vita reale non ha effettivamente bisogno di particolari preamboli; o più semplicemente, può transitare da una situazione di compostezza pubblica alla quasi dolorosa intimità della stanchezza e della noia di fine giornata, nell’atto distratto di prendere un antidepressivo prima di andare a dormire. Il filtro del linguaggio forbito invece che lenire accentua la sensazione di precipitazione nella interiorità del personaggio.
Anche la messa in scena obbedisce a un medesimo principio. L’ambiente si accosta nella apparente schematicità della disposizione di un e tavolo, un computer, una proiezione, alla forma reale della conferenza-spettacolo, effettivamente praticata da Blanco in prima persona: la verità viene convocata dalla finzione non come una qualche fonte di autorità documentaristica ma come modalità di gioco formale. Come spiega nel suo saggio Autofinzione, per Blanco in ogni scrittura vi sarà sempre insito un tradimento cruciale al documento, una sorta di alterazione connaturata all’atto stesso di narrare: «è come se fosse tutto un po’ cambiato di posto», affermerà per mezzo di un personaggio in Tebas Land. Il teatro di Blanco, a suo stesso dire, non può in alcun modo denunciare una qualche verità, potrà solo, semmai, annunciarla. Così, l’effetto ottenuto dalla staticità della scena sarà interamente a servizio della finzione. L’apparente compostezza della conferenza-spettacolo impone infatti allo spettatore una grammatica immobile in cui ogni strappo alla norma diventa, nella sua percezione, una gravissima lacerazione. In effetti, se in un’opera a inizio scena si vedono dei personaggi correre e saltare, non ci si stupirà troppo nel trovarli, poco dopo, a rotolare per terra. Ma se sul palco si avrà un solo personaggio che, in piedi, con la più grande formalità si limiterà a narrare una storia per circa mezz’ora al vederlo al trentunesimo minuto riverso per terra, sarà inevitabile sentire un tuffo al cuore.
Instaurato questo meccanismo di attese e disattese, ogni volta che Blanco racconta un gesto e poi lo agisce sulla scena, esercita sul pubblico un’impressione e una soggezione dirompenti: come nell’episodio in cui dopo averci raccontato di aver visto Fino all’ultimo respiro di Godard, e della sua fascinazione per il gesto di Jean-Paul Belmondo quando scorre il pollice lentamente lungo le labbra («Come se con questo scorrimento cancellasse il linguaggio per sempre») lo agisce egli stesso conferendo a un gesto davvero minimo una portata impensabile.
Il gioco di riflessi con cui Blanco traghetta il nostro desiderio di spettatori (raccontandoci del suo nei confronti di Belmondo e generando così un triangolo per cui noi desideriamo non perché vediamo l’oggetto desiderato, ma perché vediamo un altro desiderare), funge da detonatore costante lungo tutto il testo. Quando in una scena successiva, lo stesso, iconico passaggio del pollice sulle labbra verrà ripreso, il gioco del riflesso avrà uno scarto ulteriore, e diventerà il gioco del doppio, per poi farsi il gioco dei multipli, accentuando ancora, rincarando, un desiderio ormai così espanso, disseminato, da diventare letale.
Da L’ira di Narciso
Quella notte ho sognato per tutto il tempo Igor. […] Sono andato a correre tutto eccitato al pensiero che l’avrei incontrato all’improvviso nel parco Tivoli. Così correvo guardando in tutte le direzioni. Cercando lui dietro tutti gli alberi […] L’unica cosa che desideravo era di vederlo. […] Non potevo pensare alla mia conferenza. Né a nient’altro. Ma all’improvviso, ho pensato a questo testo. A questa stessa scena. Era l’unica cosa a cui potevo pensare. A scrivere un nuovo testo. Un testo nel quale sono io stesso a raccontare tutto questo. Un testo che parla dell’hotel e delle macchie, di Narciso e del congresso, di Igor e del footing, degli incontri con mia madre su Skype e delle zattere di immigrati che naufragano alle porte dell’Europa, di Belmondo e di Lautréamont, di Bach e di David Bowie. Un testo dove, poco a poco, tutto si mescola e ambientato nella mia camera. […]
E proprio mentre pensavo questo, proprio allora l’ho visto. Lui. Igor.
Era tale e quale me lo aspettavo. Tale e quale a come me lo ero immaginato nella mia testa. Come se Igor non esistesse. Come se fosse una mia invenzione. Comunque, era lì.
Davanti a me.
Sapeva che mi avrebbe trovato. Sapeva che sarei stato da qualche parte vicino al lago. All’improvviso mi ha fatto lo stesso gesto di Belmondo.
Questo.
Esattamente lo stesso gesto.
Adesso era lui a farlo per me. Adesso non eravamo né Belmondo né io che lo facevamo, ma lui. Può sembrare strano, ma non lo è. Quando uno scrive, è solito cambiare delle cose. E questo gesto adesso apparteneva a lui. Si era trasferito a lui.
E fu allora, in quel preciso momento, che ho pensato a Gabriel. Gabriel Calderón.
Fu in quel momento che ho pensato a me e a come volevo che questo gesto fosse condiviso tra noi quattro: Belmondo, Igor, lui e io.
E poi l’abbiamo fatto. Proprio lì.
Il doppio Gabriel Calderón si pone così come un fondamentale polo, in quest’opera di riflessi impossibili, che ricadono uno sull’altro come Narciso nello specchio d’acqua della sua immagine. Il grande amore che ogni regista prova per il proprio attore, che sembrerebbe particolarmente accentuato nel teatro latinoamericano, si rende evidente in questa personificazione obliqua. Gabriel Calderón risiede il luogo di Sergio Blanco con una certa libertà di movimento, divertendosi, alleggerendo con il suo sguardo giocosamente provocatorio e auto-compiaciuto l’arroganza a tratti insopportabile del personaggio (descritta in Autofinzione come il frutto di un meccanismo di consapevole auto-degradazione). Come viene ripetuto spesso durante la drammaturgia (e come poi saranno costretti a dire, modificando l’originale, Gerardo Otero, Gilberto Gawronski, Gabriel Agüero, Sam Crane, e tutti gli altri personificatori delle numerosissime e fortunate messe in scena dello spettacolo in diverse nazioni), se da un lato il testo parla di Sergio Blanco, dall’altro è però stato scritto per Gabriel Calderón: «Se mi dici di no, io smetto immediatamente di scrivere questo testo e, caro mio, sarai tu il responsabile della sua non-scrittura». Blanco e Calderón ribadiscono nelle loro lezioni di drammaturgia che in scena non sarà quindi mai possibile vedere propriamente Sergio Blanco, il personaggio, come non sarà possibile vedere propriamente Gabriel Calderón, l’attore, ma una posizione intermedia tra i due poli, il risultato di un cammino insostenibile. Calderón che si mette alla prova nella impossibile impresa di essere Blanco. Il contrario della pacificazione. Uno stato di mezzo, con la sua energia, con la sua terribile tensione.
E in mezzo ai due poli cosa si trova? Lo sguardo. Lo sguardo che guarda ed è riguardato, che osserva sospeso tra due punti, lo sguardo aggrovigliato a spirale su sé stesso, che disperato alla ricerca dell’altro, non si può salvare; lo Sguardo del mito di Narciso della conferenza che Sergio Blanco da giorni si sta preparando a dare. L’apnea che comporta questa posizione irrisolta non permette alcuna staticità alla narrazione di Gabriel Calderón. Guidato da un insopportabile desiderio, il racconto è una caduta che non arriva mai al suo finale. Sergio diventa, attraverso il prisma di Gabriel, anche il personaggio di Igor nel momento stesso in cui lo sta descrivendo. È l’oggetto leggermente infastidito, ma intrigato, delle attenzioni erotiche troppo insistenti di Igor, ma ne è allo stesso, preciso tempo, il loro incalzante fautore.
Quanti Narcisi può contenere il corpo dell’attore che vediamo in scena? Nascosti e vivi, feroci, con la loro immensa ira. Sono una violenza immobile che aspetta solo di esplodere.
Teresa Vila