di Josef Nadj
visto alla Biennale di Venezia, Teatro alle Tese _ 15 Ottobre 2011

Come un vecchio carillon che riprende a suonare dopo molti anni, è il Woyzeck di Josef Nadj. Una scena polverosa, con luci soffuse e colori spenti, prende vita come se si animasse d’improvviso un frammento onirico o un residuo della memoria. Sulla scena si alternano amore, morte, guerra, povertà, gelosia. Eppure tutto si svolge attutito dalla delicatezza del ricordo, filtrato da un invisibile schermo in bianco e nero, addolcito dal misurato movimento degli attori. Del Woyzeck di Büchner restano evocazioni: il contesto bellico che sfianca i soldati e logora gli animi (in controluce, i conflitti della ex-Jugoslavia), il dubbio che mina la lucidità di questo Otello di inizio Ottocento, alcuni elementi simbolici – così per esempio la legna o i ceci – che si susseguono come citazioni o omaggi al testo di ispirazione. La fatale Marie è una marionetta priva di volontà, che viene agita più che agire, che passa dagli abbracci alla violenza senza resistenza o desiderio. Moltissime le suggestioni che si manifestano chiare allo spettatore avvertito: la “Classe morta” di Kantor e un codice stilistico che riporta a certo teatro est-europeo; i maestri Marcel Marceau e Etienne Ducroux, che hanno lasciato un segno tangibile nella calligrafia del coreografo; il cinema muto e il suo meccanismo ad orologeria di tempistiche comiche. Nadj include armoniosamente nel suo linguaggio coreutico le arti marziali orientali che hanno segnato il suo percorso di formazione: movimenti bilanciati, contenuti, definiti, essenziali (non di rado in traiettorie circolari) che nulla concedono all’estetica tradizionale della danza e che non si allineano alle prospettive di ricerca contemporanea altrove frequentate dal suo “Centre Chorégraphique National d’Orléans”. Anche gli straordinari performer si mostrano al pubblico ben diversi da accademici ballerini: infagottati in ingombranti cappotti, vanno alla ricerca di un delicato espressionismo che pare nostalgica rievocazione di un movimento d’altri tempi. Lo sguardo sincretico del coreografo si manifesta anche nell’impianto visivo: una scena dal forte impatto pittorico, costruita con tavoli e assi di legno, covi quadrati di paglia che svelano sul retro una piccola coda da equino intrecciata, porte prive di cardini capaci di modificare lo spazio, statue di terracotta pronte a sciogliersi sotto le mani inquiete degli attori. Vero protagonista l’immaginario degli spettatori, risvegliato da un universo polveroso di dettagli, di atmosfere oniriche e fiabesche, da una precisione mai fine a se stessa. Non manca qualche sbadiglio in sala, complice la seconda serata in conclusione del festival. Ma si resta ammaliati dall’incantesimo misurato e lieve del coreografo che, come avesse a disposizione un flauto di Hamelin, riesce a condurre con sé il pubblico esigente e ormai stanco della Biennale di Venezia.

Maddalena Giovannelli

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