Inequilibrio è un festival che ha l’ambizione di occuparsi dei luoghi facendo teatro. Ad affermarlo non è solo il co-direttore artistico Fabio Masi, ma lo hanno ribadito in tanti a Castello Pasquini a Castiglioncello, dove, nell’ambito del Premio Lo Straniero, si è tenuto un incontro a tema spazi sociali, riqualificazione urbana e progetti di residenza artistica. Un dibattito quanto mai centrato rispetto alle sorti che toccano ora da vicino l’Associazione Armunia (di cui il festival estivo è solo uno dei progetti), obbligata a un cambio di sede. In altre parole, per citare il premiato architetto Giacomo Borella, Inequilibrio ambisce a “prendere sul serio i luoghi”, riconoscendone le specificità. Del resto le specificità dei luoghi di Armunia si fanno palesi a chiunque si avvicini a Castello Pasquini. Un luogo che non può essere pensato come sala teatrale ma piuttosto, come ha suggerito Piergiorgio Giacchè, come scena di incontri e di scambi con la rara ambizione di riempire gli spazi di significati più che di cose.
Tutti ragionamenti, questi, che hanno un che di nostalgico e poco di consolatorio rispetto alle nuove sfide poste dalla imminente chiusura del Castello per lavori di restauro e dal conseguente smantellamento degli spazi ora destinati ad Armunia. Per il prossimo futuro ci sono quindi ancora molte incertezze. Ma i problemi erano iniziati già con l’improvvisa dichiarazione, a pochi mesi dall’inizio del festival, di inagibilità della tensostruttura nel giardino, spazio che aveva anche consentito, negli ultimi anni, di concentrare tutti gli appuntamenti di Inequilibrio a Castiglioncello. Quest’anno la programmazione si è riorganizzata dislocando alcuni spettacoli al Teatro l’Ordigno di Vada e concentrando gli appuntamenti di danza alla sala Nardini di Rosignano: uno spazio efficacemente adattato all’uso dallo staff tecnico di Armunia e che nel primo fine settimana di festival ha ospitato performance brevi ma preziose come Ci sono cose che vorrei davvero dirti, “lettera danzata” di Giovanni Leonarduzzi per suo figlio, e Drumming Solo, in cui Daniele Albanese indaga il tema del limite nella geometria di un quadrato di luce, sul ritmo dettato dai quattro percussionisti in scena. Tuttavia non è negabile che il trasferimento di alcuni spettacoli ad altre sedi abbia penalizzato il festival in termini di fluidità della programmazione e di accessibilità. E, per quanto il pubblico sia composto principalmente da critici e operatori, dispiace vedere decine di posti vuoti nelle platee delle sale distaccate.
Nel primo fine settimana di questa diciannovesima edizione è apparso con chiarezza uno dei temi trasversali del festival. È un ritratto amaro e schietto del nostro paese, delineato da almeno tre spettacoli che documentano l’attenzione di Armunia per la nuova drammaturgia e per progetti ancora in trasformazione, in continua ricerca.
A partire da Niente (farsa nera) in cui Andrea Cosentino e Valentina Capone portano in scena la strage di Erba del 2006. Quello presentato a Castiglioncello è un primo studio sul tema del tragico nel nostro contemporaneo: dal Macbeth al noto fatto di cronaca nera, riletti attraverso l’assunto marxista che “la storia si presenta una prima volta come tragedia e la seconda come farsa”. La messa in scena della vicenda di Rosa Bazzi e Olindo Romano passa allora per un lavoro sui personaggi – lei con l’ossessione della pulizia e il continuo mal di testa, lui un Pulcinella che legge Dylan Dog – con contaminazioni di commedia dell’arte e continui passaggi dal livello della rappresentazione a quello del dialogo con il pubblico. Il nodo tragico sembra però limitarsi alla ripetuta esposizione dei fatti – quelle stesse azioni raccontate con voyerismo mediatico dalla televisione – faticando ancora, in questa fase di studio, a diventare trasposizione efficace di una domanda centrale: come si può mettere in scena la tragedia?
La violenza è al centro anche del progetto appositamente realizzato per Inequilibrio da Gogmagog e Virginio Liberti. La loro Infinita guerra italiana si compone di quattro battaglie di venti minuti ciascuna, manifestazioni di un conflitto permanente e delle sopraffazioni radicate nella nostra società. Al centro dei quattro episodi sono altrettante tragedie personali in cui i ruoli di vittima e carnefice si sovrappongono e invertono continuamente, con capovolgimenti di senso che giocano sul contrasto tra realtà e apparenza. Particolarmente significativa in da questo punto di vista è la prima battaglia, Non è quel che sembra, in cui il pubblico – complice anche la dimensione intima della Sala del Tè di Castello Pasquini, uno dei due spazi abitati dal progetto – è direttamente coinvolto dalla drammaturgia frammentaria costruita su un immaginario dialogo con gli spettatori. Si tratta di una rappresentazione del tragico ‘altra’, che porta il pubblico a un incontro ravvicinato con uno stato di guerra nascosto e costante. Un tragico che – sembrano ricordarci i diversi autori – fa parte del nostro presente e della nostra storia, ripresentandosi ogni volta in forme nuove: dai riferimenti al classico a Shakespeare, da Erba ai tanti episodi nascosti (e celebrati) tra le pagine di cronaca nera.
Nel dialogo tra il nostro passato e l’oggi si colloca senz’altro il nuovo lavoro di Frosini/Timpano, che a Inequilibrio presentano Zibaldino africano, prima parte di Acqua di Colonia. Lo spettacolo, che debutterà nella sua forma completa a Romaeuropa il prossimo novembre, rilegge il rapporto degli italiani con i migranti alla luce del nostro passato colonialista. Una storia lunga e in parte rimossa, dentro a cui si sedimenta uno sguardo che ancora ci appartiene. La ricostruzione storicistica è affidata a un racconto frammentario e a pochi dati, con fatti e personaggi evocati su un palco completamente vuoto. A dominare la scena è infatti il potere dell’immaginazione in una dinamica meta-teatrale di interrogativi e dubbi su quello che potrebbe o non potrebbe essere raccontato, e come. L’Africa orientale italiana del 1938 prende forma in un “appello all’immaginazione del pubblico” che segue l’esempio di Salgari, quel narratore di viaggi esotici che aveva descritto e immaginato (a distanza) ogni cosa.
La drammaturgia è uno zibaldone (o uno zibaldino, come suggerisce il titolo) che mette insieme indifferentemente le parole di Kant, di Benedetto Croce, di parenti e conoscenti, di Hegel o di Aristotele. E sul ritornello “italiani brava gente”, che purifica “come acqua di colonia”, stona la presenza in scena di una testimone muta, diversa per ogni replica. Una donna di colore che si fa manifestazione concreta di un sopruso: sarebbe lei a dover parlare, e obiettare, e invece è costretta a stare zitta. E solo qualche sguardo si può fare portatore di un profondo disappunto.
Francesca Serrazanetti