Attraversare il paesaggio con un passo lento è il primo modo per conoscerlo, misurarlo e farlo proprio. Da Baudelaire a Benjamin, da Rimbaud a Balzac, negli ultimi due secoli studiosi e poeti hanno teorizzato e scritto sull’esperienza del flâneur che, emblema della modernità, si perde in una città dimenticata e, nello smarrirsi, penetra lo spazio e lo comprende. E se un metro di misurazione in questa scoperta è il passo, l’altro è, inequivocabilmente, lo sguardo. Come sostiene Franco Farinelli, geografo tra i più acuti dei nostri tempi, il “paesaggio” ha luogo solo se sussistono tre condizioni: un territorio da guardare, un soggetto che guarda e un punto di vista che dia il massimo di orizzonte.
Lo sguardo e il passo, strumenti elementari di conoscenza e appropriazione del paesaggio, sono i primi elementi della drammaturgia spaziale curata da DOM- (Leonardo Delogu e Valerio Sirna, in collaborazione con Hélène Gautier) per L’uomo che cammina, presentato al Festival di Santarcangelo in una produzione appositamente studiata per la città di Rimini e i suoi sobborghi. Liberamente ispirato all’omonima graphic novel di Jiro Taniguchi, è un attraversamento di spazi che celebra la flânerie invitando lo spettatore a seguire un uomo che cammina (Maurizio Lupinelli), ad accordare il proprio passo al suo, a mantenere una certa distanza, ad affondare nel paesaggio che si attraversa. E assecondando queste poche regole, mano a mano che si procede si perde la propria percezione del quotidiano. Come nella corsa, “si rompe il fiato” e ci si abbandona all’andatura lenta e molleggiata di Lupinelli, si entra nel suo ritmo, si seguono gli sguardi solo intuiti, di spalle, dalla rotazione del capo. Si apprende poco a poco a distinguere i tempi, i materiali e i colori, l’aderenza tra i propri piedi e il suolo che cambia, da strada a sabbia, da roccia a sentiero sterrato.
Dopo il percorso che in treno conduce da Santarcangelo a Rimini, l’inizio della performance è l’unico momento di relazione propriamente frontale con il pubblico. Una fila di poche sedie in un vicolo dietro alla stazione costituisce la platea di una scena in cui alcune figure si muovono in una casa, incorniciate dalle finestre e svelate dall’apertura di tapparelle che si alzano e si abbassano come sipari. Da lì l’uomo prende il cammino dando inizio un lungo piano sequenza. Lo spettatore osserva da una certa distanza, mantenendo quel distacco e allo stesso tempo instaurando quell’empatia che sono, insieme, proprie del teatro. La scrittura scenica è costituita da tracce e apparizioni che evocano frammenti di vita – forse ricordi – e accompagnano lo sguardo nella stratificazione del quotidiano, in bilico tra realtà e finzione. Le quattro ore di cammino sono scandite da un prologo, tre capitoli e un epilogo, ognuno abbinato, tramite indizi forniti sotto forma di biglietto, a un verso del quinto canto dell’Inferno dantesco, portando con discrezione alla mente Minosse e Virgilio, la storia di Paolo e Francesca e le anime del secondo girone infernale, quello di coloro che sono morti per amore.
È una struttura costruita con cura e attenzione al dettaglio, esito di un puntuale lavoro di produzione e di coinvolgimento del territorio, che dichiara una sensibilità estrema allo sguardo. La capacità di guardare è, infatti, dentro alla drammaturgia dei luoghi, che si susseguono rivelando la continua trasformazione e la varietà di quel Terzo Paesaggio battezzato qualche anno fa da Gilles Clément: è la biodiversità che si nasconde tra le villette dei sobborghi di Rimini, oltre il traffico del centro storico e la speculazione edilizia delle grande strutture alberghiere, dalla periferia urbana all’aprirsi di scenari incontaminati, dal macello abbandonato alla distesa di ombrelloni della riviera romagnola, dai ponti ai rilevati ferroviari, dal letto del fiume alla cava al tramonto.
All’interno di queste inquadrature a campo lungo la molteplicità dei piani porta a stringere su alcuni elementi, presenze evanescenti al di là del reale: figure femminili, corpi abbandonati, un ragazzo che trasporta colonne sonore in bicicletta, un gruppo di bambini, un cameriere sulla spiaggia che offre qualcosa da bere, una coppia seduta su una panchina, un trans che canta musica pop italiana sono presenze che si alternano per incontrarsi, prima di entrare nella campagna, in un corteo di felliniana memoria.
Il principio che guida questo tipo di esperienze – cambiare lo sguardo e accendere una diversa sensibilità sugli spazi del quotidiano – è risolto con una scrittura “aperta” all’immaginario di chi prende parte a questo percorso. Senza bisogno di ricorrere a voci registrate, narrazioni in cuffia o azioni propriamente performative, si entra progressivamente dentro al modo di sentire che è dell’uomo che cammina. Che non si volterà mai a guardarti se non in un solo momento, ma che incrocerà persone che potrebbero essere figure della sua memoria così come personaggi di una storia che non lo riguarda, anime di un girone infernale, morti che lui non vede, tracce che ritornano dentro a paesaggi che vanno a costituire, in un montaggio tutto personale, drammaturgia e spazio scenico.
Nell’ultima edizione del festival con la direzione di Silvia Bottiroli, L’uomo che cammina sembra rispondere ai diversi aspetti che hanno caratterizzato la sua linea curatoriale. Una vocazione alle nuove forme performative, la riscoperta dei luoghi ma anche dei tempi – articolati sulla durata e sulla specificità dei singoli momenti – l’attenzione a uno sguardo altro nella relazione con il territorio. Questa volta, a cammino concluso, qualcosa nella nostra percezione è inevitabilmente mutato.
Francesca Serrazanetti
L’uomo che cammina / Rimini
creazione e drammaturgia spaziale a cura di DOM-
regia Leonardo Delogu e Valerio Sirna in collaborazione con Hélène Gautier
con Maurizio Lupinelli
visto nell’ambito di Santarcangelo festival internazionale del teatro in piazza _ 9-10/13-17 luglio 2016