Qualcosa, qui a Venezia, è esploso. Le energie hanno creato un effetto risacca che invece di respingerti ti ha attirato. L’onda si è caricata, per poi infrangersi sulla spiaggia di questi giorni come fronte compatto, getto potente, pura necessità. Avevi sofferto e non poco a seguire una lunga fase di lavoro estremamente teorico, in cui Ricardo Bartís aveva aperto il cuore del proprio lavoro come si aprono le porte di un museo: guardare ma non toccare. Hai conservato la tua posizione come avrebbe fatto una trincea in tempo di guerra, aperto ad ospitare fuggitivi. Ma raramente sei davvero stato utile a qualcuno. Poi qualcosa è successo. E il suo parlare non è stato quello dei libri di testo, ma del battito del cuore: incostante, impulsivo, sempre sul filo dell’aritmia, perché così è la costruzione teatrale, “un’arte millenaria, la più antica di tutte”.

Nei giorni passati avevi confessato alla “classe” e a colleghi e amici la speranza riposta nell’asso che ogni persona, chiamata a fare (certe volte maestro è una parola da bandire), conserva nascosto nella manica. L’arte di Ricardo Bartís ha detonato tutta insieme, creando reazioni chimiche fondamentali, responsabili di una creazione scenica reale, viva, dinamica. In qualche modo inaspettata. Ora ti trovi a stendere il capitolo finale di questa breve esperienza, tirando le somme di quello che è accaduto, nel tentativo di rendere l’idea dell’ “effetto Bartís” applicato a energie attoriali momentanee e contemporaneamente di decifrarne le dinamiche e, se ve n’è una, consegnarne memoria.
Quindici attori hanno lavorato duramente, mettendosi a confronto con un linguaggio artistico assolutamente personale come quello del regista argentino. E i risultati sono stati i più vari. La giornata di venerdì 3 è stata fondamentale, la fermata a cui il vaporetto Bartís ha raccolto davvero tutti, dimostrando che era in grado di traghettare la loro creatività verso nuove rive (o fondamenta) di espressione. Hai capito che Bartís non si parla addosso, cerca anzi forsennatamente il senso del proprio stare.
Agli attori è stato chiesto di concentrare l’attenzione sul corpo come presenza essenziale e di identificare lo spazio scenico come unico luogo in cui un’esperienza (non biografica ma elementare) possa davvero essere trasformato in materia viva, urgenza di comunicazione ed espressione che guarda dritto negli occhi il punto de vista. Parlare di improvvisazione come base del lavoro di Bartís in scena non sembra appropriato, preferisci allora la parola associazione. Ché improvvisazione ha troppi debiti dei confronti di un’idea di estemporaneità pura. Associazione è invece ascolto, contatto, comprensione di un linguaggio comune, tutti elementi necessari per lasciar respirare quell’aria rarefatta che per Bartís caratterizza la scena.
Rarefatta perché nella recitazione confluiscono momenti estremamente differenti, discorsi visivi, emotivi e verbali che raccontano nello stesso tempo due realtà anche opposte. È un uomo che inciampa: se si manda a rallentatore la scena, si ha di fronte un corpo umano che racconta due impulsi esattamente opposti, la forza di gravità e il tentativo di non cadere. Si tratta di un’opposizione fondamentale che crea una enorme complessità, che fa convivere due realtà contrastanti. Allo stesso modo Bartís ha portato gli attori a realizzare momenti di gruppo in cui le energie si sono integrate a partire non tanto da associazioni tematiche, ma sempre di più da dettagli fisici, atteggiamenti accennati, ombre negli sguardi. Le dinamiche apparentemente oscure di certi esercizi, la loro semplicità così grande da farsi criptica ha portato ad assettare il fuoco della riflessione sul concetto fondamentale di tiempo in rapporto alla forma. Le due parole che hai sentito pronunciare più spesso da Bartís hanno trovato spazio in maniera sempre più chiara via via che gli esercizi si caricavano di peso drammaturgico, di quel particolare senso assunto dalla parola “testo”.
L’uso degli oggetti è stata una terapia efficace, ha liberato molta della creatività compressa dentro i corpi dal poco tempo e dalla poca conoscenza reciproca, fino ad annullarsi gradualmente e con grande naturalezza. Alessandro, Gaetano e Jordi (in rigoroso ordine alfabetico) hanno preparato il terreno mettendo a segno un ritorno all’Amleto che ha stordito e divertito tutti usando alla perfezione tempi e spazi. Dopodiché l’energia si è conservata autonomamente, scorrendo in scena come quell’acqua alta che ci aveva bagnato i piedi, lasciandosi governare dai gesti e dalle parole di Giorgia, Livia e Marta. In questi tre nomi si racchiude il grande lavoro di tutti: con una fluidità rara, lo spazio della narrazione si è aperto a latitudini inaspettate, liberandosi come mai prima, alla ricerca di un vero e proprio atteggiamento critico nei confronti di corpo e durata. Incamminandosi per la Riva, verso Ca’ Giustinian dove avrebbe avuto luogo l’incontro pubblico di Bartís, c’era tra tutti come una spessa meraviglia, un fuoco d’incredulità che ha tenuto caldo a tutti fino a notte inoltrata.
Mentre scrivi, il laboratorio si è concluso ormai da ventiquattro ore. Hai passato un’intera domenica a Venezia, prima d’esser pronto a partire. Avresti scritto solo una volta tornato alla tua vita, ché non volevi che le emozioni di giorni così intensi ti correggessero la vista. E invece un volo cancellato ti ha costretto a rimandare di una notte ancora. Tu che vuoi vedere ovunque i segni, hai colto questo e ti sei messo a scrivere.
Potresti parlare adesso della grande importanza delle improvvisazioni di Deniz, Jordi e Sara l’ultimo giorno, dei traguardi raggiunti a nome di tutti, ma comprendi che l’apice del senso era già stato toccato dalla cena della serata precedente. Se anzi la Biennale vuole veramente “raccontarsi”, come promette l’intestazione di queste pagine, forse è questo che tu devi registrare: gli aperitivi, i tragitti a piedi, i caffè. E allora non è fuori luogo annotare la cena di venerdì al Paradiso Perduto come fosse un momento del laboratorio. Perché è nei dettagli che riposa il senso di tutto questo. Di un lavoro, quello dell’attore, che non vuole definizioni, che è energia pura, istinto, tecnica che libera dalla tecnica, sostanza che muove il tempo, lo annulla e finisce per essere ovunque.

Nel cerchio degli sguardi, nei gesti del mangiare, del ridere, dell’ascoltare, nel cambiare posto per sentirsi meglio, nell’ordinare altro vino, nel raccomandarsi di stare attenti ché in bagno si scivola, nel tentare di decifrare il castigliano del direttore e l’argentino di Bartís mentre discutono di teatro, nell’uscire al freddo per guardar gli altri fumare, in un brindisi fragoroso, nell’accompagnarsi a casa dall’altra parte di Venezia solo per sentire, al ritorno, i tuoi passi come unico suono. È nel veder piangere qualcuno e annuire in silenzio, per il semplice fatto che è un’azione. Non una riproduzione, ma un’azione. Sì. Actuar è molto più che recitare. E Bartís ha regalato a tutti questa consapevolezza.

Sergio Lo Gatto