Nella memoria della performance, quello che resta impresso spesso è il suo spazio scenico: descrittivo, evocativo, segnato da pochi elementi, simbolico, astratto, persino vuoto.
A proposito di memoria, ad esempio, per chi abbia visto il Pinocchio di Antonio Latella, la prima immagine che torna alla mente è probabilmente la pioggia di trucioli che invade il palco per quasi tutta la durata dello spettacolo. Un’immagine che, a posteriori, richiama in modo abbastanza evidente le piogge di coriandoli, di acqua o di neve che Katrin Brack, ora premiata dallo stesso Latella con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, ha di frequente utilizzato nelle sue scenografie.
Quello di questa Biennale è un premio che riafferma l’importanza di una professione cui spesso non viene riconosciuto, soprattutto in Italia, un ruolo di predominanza artistica e non di servizio alla creazione performativa.

Oltre a collaborazioni più sporadiche con altri registi, Katrin Brack ha ideato con continuità le scene degli spettacoli del belga Luk Perceval e del bulgaro Dimiter Gotscheff, scomparso nel 2013. A partire dagli anni novanta ha sperimentato un nuovo modo di intendere lo spazio scenico, andando oltre l’illustrativo per trovare una specifica strada, nel minimalismo, per riempire la scena. Una delle cose che più colpisce nelle scenografie di Brack è, infatti, la capacità di costruire immagini forti con soluzioni spesso semplici, andando non a interpretare né a descrivere, ma a fornire una lettura artistica dell’opera con cui attori e regia dovranno entrare in relazione.
Come ci racconta in una conversazione a margine della cerimonia di assegnazione del premio (l’intervista completa aprirà il dossier dedicato allo spazio scenico nel nuovo millennio, a cura di chi scrive e di Vittorio Fiore, sul prossimo numero di “Hystrio”), il punto di partenza per Katrin Brack è il testo, dal quale arriva a definire un solo elemento, semplice, di facile reperibilità e di immediata comprensione nella relazione con il pubblico.
Che sia la nebbia di Iwanow, le ghirlande di Anatol  o i riflettori di Krankenzimmer Nr. 6, un solo materiale è scena nel ruolo di se stesso senza nessun compromesso con la finzione: gli elementi scenici sono materie, o più raramente oggetti, con i quali i performer devono entrare in relazione e che trasformeranno profondamente, nell’interazione, il loro modo di stare su palco.

Solo in una primissima fase del suo lavoro Brack ha costruito scene architettoniche con semplici dispositivi flessibili, smontabili e rimontabili. Ne sono esempi la macchina in legno trasformabile dalle due alle tre dimensioni di Ten Oorlog (regia di Luk Perceval, 1997), quella di Der Zerrissene (regia di Georg Schmiedleitner, 2001) o dell’Orfeo (regia di Joachim Schlomer, 2002) che ricorda le macchine sceniche mobili dei teatri totali sperimentati dal Bauhaus. Ma da anni Brack non costruisce più niente: senza bisogno di atelier o laboratori, usa materiali e oggetti ricontestualizzati, che spesso trovano nella serialità e nella loro ripetizione ‘quasi all’infinito’ il proprio principio compositivo e artistico. In questo modo, con grande semplicità, dal vuoto si crea la moltitudine.
Così, la scenografia di Der Selbstmörder (regia di Dimiter Gotscheff, 2007) è punteggiata di altalene che calano dalla graticcia, Büchner/Leipzig/Revolte (regia di Thomas Thieme, 2009) è un labirinto di ghirlande dorate stese dall’alto, riproposte poi in Anatol (regia di Luk Perceval, 2008); in Der Fall Esra (regia di Angela Richter, 2009) lo spazio scenico è pieno di fili e lampadine accese ad ogni altezza; in Der Tartuffe (regia di Dimiter Gotscheff, 2006), a invadere la scena sono stelle filanti colorate, in Der Leutnant von Inishmore (regia di Dimiter Gotscheff, 2002) sono invece coriandoli colorati, ripresi anche in Kampf des Negers und der Hunde (regia di Dimiter Gotscheff, 2003).

La relazione con lo spazio vuoto della scena è spesso demandata a un elemento naturale, capace di riempirla lavorando sulla leggerezza e allo stesso tempo sulla densità: la neve che cade per cinque ore senza sosta (Molière, Luk Perceval, 2007) o la pioggia nebulizzata incessantemente di Prinz Friedrich von Homburg (regia di Armin Petras, 2006) sono due degli esempi più noti e suggestivi.

Se in tutte queste scene la moltitudine è una pioggia di elementi che calano dall’alto, in altre la moltiplicazione avviene al livello della scena: ecco allora le decine di sacchi a pelo di Leonce und Lena (regia di Dimiter Gotscheff, 2008) o i palloni colorati di Ubukoenig (regia di Dimiter Gotscheff, 2008), o ancora la schiuma di sapone che invade il palco di Das große Fressen (regia di Dimiter Gotscheff, 2006), o la nebbia e il fumo in quella che resta una delle scenografie più suggestive della Brack, quella per Iwanow (regia di Dimiter Gotscheff, 2005).

In questo negato compromesso con la finzione (“gli oggetti o elementi che metto in scena restano sempre quello che sono, senza fingere di essere altro”, afferma) l’elemento scenico diventa a tutti gli effetti un attore, che agisce la propria presenza nella lunga durata senza trucchi di sorta. Non è un caso che ci siano spesso in vista le attrezzature del palco – altra caratteristica, questa, che ci porta alla mente diversi spettacoli di Latella svelando ancora quella che è una innegabile fonte di ispirazione del nuovo direttore della Biennale  – o che macchinari e fari diventino l’elemento principe caratterizzante la scena. L’esempio più noto è Krankenzimmer Nr. 6 (regia di Dimiter Gotscheff, 2010) costellata di nove grandi riflettori bassi e ben in vista: qui la Brack non fa altro che muoverli molto lentamente, trasformando la scena in modo impercettibile dallo spettatore.

Il lavoro di Katrin Brack si pone come stimolo da cui ha origine l’azione registica: la scenografia non è “al servizio”, ma è piuttosto una delle ragioni che determinano altre scelte artistiche, con cui la regia entra in relazione solo in un secondo momento. Ne nascono spettacoli con una stratificazione di significati e simbologie che scaturiscono con grande forza dalla semplicità di pochi gesti. Una posizione che stupisce, soprattutto in Italia, e che rende ancor più significativo il riconoscimento di questo premio da parte della Biennale. Per usare le parole della stessa Brack: “Il mio lavoro opera volutamente sulla riduzione. Io non illustro né faccio simbologia: cerco soprattutto di creare atmosfere, con leggerezza e semplicità”.

Francesca Serrazanetti