da L’Étranger di Albert Camus
con Fabrizio Gifuni
visto al Teatro Franco Parenti, 24-27 maggio 2016 Milano
Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga. Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite e le tecniche impazzite, la morte degli dei e le ideologie portate al parossismo, in cui mediocri poteri, privi ormai di ogni forza di convincimento, sono in grado oggi di distruggere tutto, […] questa generazione ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, fondandosi sulle sole negazioni, un po’ di ciò che fa la dignità di vivere e di morire. Davanti ad un mondo minacciato di disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza
Queste parole di straordinaria attualità sono tratte dal discorso che Albert Camus pronunciò nel 1957, in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura.
Sono tornate alla mente dopo aver assistito al reading tratto da L’Étranger con Fabrizio Gifuni, protagonista unico e indimenticabile di una creazione artistica vitale anche oltre la scena, generatrice un’onda lunga di pensiero, emozione e di riscoperta della voce lucida dello ‘straniero’ Camus (Taccuini, 1940). “Posto a metà strada tra la miseria e il sole” d’Algeria, orfano di padre e con una madre analfabeta, Camus ha conosciuto il privilegio, solo in apparenza paradossale, di questa condizione e quello di incontri che hanno determinato in lui la necessità di aprirsi alla coraggiosa conquista di un diritto primario. Il diritto della cultura è infatti conquistato dallo scrittore grazie a maestri ideali e reali, su tutti Nietzsche, de Richaud (La Douleur), Dostoevskij, Melville (Moby Dick); il maestro elementare Louis Germain, che per primo riconobbe la straordinaria intelligenza di Camus, l’amato professore di filosofia e mentore, Jean Grenier, l’amico Pascal Pia, ‘uomo assurdo’ che contribuì, pur senza volerlo, alla costruzione del protagonista de Lo Straniero.
Camus getta i semi di questo romanzo in forma di appunti nel 1937 e fino al momento della conclusione (1940), L’Étranger si intreccia con importanti esperienze biografiche e lavorative: soprattutto con l’espulsione dal partito comunista per dissidi sulla questione musulmana (gli arabi sono presenza rilevante ne L’Étranger) e con l’attività di giornalista all’interno di “Alger-Républicain” insieme a Pascal Pia. Gli anni de Lo Straniero sono ricchi di creatività. Camus scrive testi fondamentali, L’Envers et l’Endroit, ‘la sorgente’ di tutto ciò che è venuto poi; l’opera teatrale Caligula, in cui si riflette anche l’intenso amore di Camus per la recitazione (in particolare per la compagnia di Radio Algeri e per il Théâtre de l’Équipe); La Mort heureuse, opera che, interrotta per L’Étranger, ne rielabora alcuni tratti, a cominciare dal nome del protagonista. Il nome, identico, a parte una lettera (Mersault) del personaggio de La morte felice diventerà Meursault ne Lo Straniero. “Tutta la differenza risiede in questa lettera” scrive Roger Grenier in Albert Camus. Opere: “In Mersault vi è mer (mare) e forse soleil (sole). È un eroe dionisiaco. In Meursault vi è meurs (muoio). L’eroe, incarnazione della sensibilità assurda, è condannato sin dal principio”.
La morte accompagna il protagonista in tutto Lo Straniero, dal celebre incipit (“oggi la mamma è morta”), all’epilogo con la sua condanna a morte, alla rissa in spiaggia, durante la quale Meursault uccide un arabo. Processato per questo omicidio, non sa dire perché lo ha compiuto, se non per il sole, forte, accecante tanto da farsi nero e mortifero. Meursault viene condannato alla pena capitale su cui pesa come un macigno l’aggravante dell’indifferenza mostrata durante il funerale della madre, senza lacrime, per non voler fingere un dolore che non sente.
Lo ‘straniero’ Meursault “non sta al gioco” dice Camus, “rifiuta di mentire. Mentire non significa soltanto non dire la verità. Significa anche, e soprattutto, dire più della verità e, per quanto riguarda il cuore umano, dire più di quanto non si provi […]. Meursault, contrariamente alle apparenze, non vuole semplificare la vita. Si rivela per quello che è, rifiuta di mascherare i suoi sentimenti e subito la società si sente minacciata”. Conclude Camus nelle note ai testi de Lo Straniero: “Meursault per me non è dunque un relitto, ma un uomo povero e nudo, amante del sole che non lascia ombre. Lungi dall’essere privo di sensibilità, una passione profonda, perché tenace, lo anima, la passione dell’assoluto e della verità. Si tratta di una verità ancora negativa, la verità di essere e di sentire, ma senza la quale nessuna conquista su se stessi e sul mondo sarà mai possibile”. “Il sole che non lascia ombre”. A questo sole che si impossessa senza tregua della mente di Meursault e del suo corpo, Gifuni ha saputo dare memorabile forza visiva con la complicità di un silenzio carico di desolante tensione, che scandisce il reading e che a tratti dialoga con coinvolgenti sonorità (G.U.P. Alcaro), il frenetico e ipnotico Killing an Arab (The Cure) e il noir, ossessivo, dissonante The Stranger (Tuxedomoon).
La voce di Meursault e degli altri personaggi – tutti interpretati da Gifuni – viene sospesa per creare silenzi che sostanziano gli sguardi e i movimenti dell’attore, soprattutto quelli che restituiscono in modo eccellente il pulsare di tempie e vene – su cui Camus insiste molto nel romanzo – per il sole di Algeri, e creano attesa, disagio, partecipazione in chi li ascolta e osserva. Movimenti e certe immobilità del corpo di Gifuni-Meursault, ai quali partecipa anche il morbido abito bianco di scena – eco dell’abito di Mastroianni ne Lo Straniero di Luchino Visconti (1967) – sono tutti essenziali per delineare il destino fisico del protagonista, segnato dalla vorace luce del sole (“Mi è parso che il cielo si aprisse in tutta la sua larghezza per lasciar piovere fuoco. Tutta la mia persona si è tesa e ho contratto la mano sulla rivotella”) e dai fantasmi delle sue ombre, dalla sua perdita (“mi sono scrollato via il sudore ed il sole”) e dal capire di aver “distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice”.
Gifuni dà giusta forza poetica, attraverso una variazione di timbro vocale, all’altra faccia di Meursault che si coglie in questo passaggio chiave, vale a dire alla vicinanza a una vita semplice, pura, alla natura mediterranea del mare e del sole, al silenzio, che è un preciso atteggiamento dinanzi al mondo, che Camus conosceva bene fin da bambino, quando lo aveva visto per la prima volta negli sguardi della madre sul frammento di mondo oltre la finestra della loro umile casa, un silenzio condiviso, da allora più volte espresso e sempre ricercato. Quando la condanna a morte è ormai prossima, la voce e il corpo di Gifuni-Meursault fondono – e non si riesce a immaginare un modo diverso – gli impercettibili silenzi dinanzi agli “odori di notte, di terra e di sale” e dinanzi alla vista di “quella notte carica di segni e di stelle” con il primigenio e liberato abbandono “alla dolce indifferenza del mondo”. Nel reading l’indifferenza di Meursault, tema nevralgico de Lo straniero, è soprattutto un indimenticabile timbro vocale che Gifuni reitera quasi identico in modo da rendere familiare e necessaria al pubblico l’indifferenza di Meursault e spezzarla con più efficacia quando irrompe nel protagonista un sentimento inatteso, l’ira rabbiosa e liberante contro l’ostinato sacerdote che, giunto per l’estrema riconciliazione con Dio, vuole piegare l’integrità esistenziale del ‘condannato’.
Anche con Camus, Gifuni riconferma il proprio indiscutibile talento e l’importanza di incontri speciali (Orazio Costa) per alimentarlo. L’auspicio è ora che l’attore romano porti in scena il teatro di Camus, la passione più tenace per l’artista algerino, il rifugio, il “miracolo d’amare ciò che muore”.
Raffaella Viccei