di Simon Armitage
Regia di Robert Wilson
Visto al Teatro Nazionale di Grecia, Atene _26 ottobre 2012 – 16 marzo 2013
Dal 3 al 24 aprile 2013 al Piccolo Teatro di Milano

Tiepida serata di primavera ad Atene. È sabato e le strade del centro sono animate. Molti ateniesi si stanno recando al Teatro Nazionale, che da cinque mesi ospita lo spettacolo-evento Odyssey. Nel bell’edificio neoclassico la Sala Centrale è gremita. È vero che, come antidoto alla crisi, il Teatro Nazionale offre prezzi accessibili e facilitazioni, ma il pubblico greco è sempre attento ad un repertorio di alta qualità. Questa Odyssey fa parte del progetto “Che cos’è la nostra patria”, una serie di iniziative teatrali che indagano l’essenza e il dinamismo dell’identità greca. La sfida è stata lanciata dal Direttore Ghiannis Chouvardàs, anche apprezzato regista, che ha corteggiato a lungo il grande Bob Wilson e lo ha convinto ad un esperimento di largo respiro: un’Odissea di attori greci, che parlerà greco anche oltre confine. Determinante è stato il sostegno e la collaborazione del Piccolo Teatro di Milano, il cui Laboratorio ha creato costumi, maschere e decori di scena. Dunque, una coproduzione internazionale che intende mostrare una Grecia ricca di talenti e professionalità, capace di misurarsi con i linguaggi di avanguardia.

Abbiamo voluto vedere lo spettacolo ad Atene, dove ha avuto la sua genesi e dove si carica di particolare significato. Riferiamo qui le nostre impressioni a caldo, in attesa dell’allestimento al Piccolo Teatro di Milano, previsto il prossimo aprile (la pre-vendita dei biglietti è già a pieno ritmo).

Che cos’è dunque questa Odissea di Wilson? Possiamo subito dire quello che non è. Non vuole essere una fedele ricostruzione filologica dell’epos omerico. Wilson infatti ha scelto di adattare, con alcuni tagli, la riscrittura del poeta inglese Simon Armitage, un lavoro nato nel 2004 per il canale radiofonico della BBC. Non è nelle corde dell’americano inserire riferimenti alla contemporaneità, e dunque è rimasto deluso chi voleva lo spirito di denuncia, un Ulisse greco che combatte la crisi attuale.
È un esperimento nello stile di Wilson: formalismo, alta stilizzazione, geometrie raggelanti, un’estetica che, come è stato rilevato, fa tesoro della lezione cubista e la mette in dialogo con la razionalità del Bauhaus, ma anche con le monocromie alla Rothko e le atmosfere oniriche del surrealismo. Tutto in una levità elegante, dove protagonista assoluta è la luce che, regolata con eccezionale maestria, diventa anche elemento architettonico: dà vita e realtà a figure e oggetti, toglie spessori e volumi, si rifrange in atmosfere algide, ricama giochi d’ombre dal sapore orientale. Sotto le studiate alchimie luminose, la scena si trasforma: linee sobrie ed essenziali disegnano i diversi luoghi, grazie a pareti laterali mobili che creano l’illusione di prospettiva e profondità, e l’ausilio tecnico di registrazione sonore (ronzio di zanzare, sciabordio delle acque) ‘riempie’ di realtà gli spazi vuoti.

Luce, musica, recitazione saranno i tre ingredienti fondamentali per la visione odissiaca di Wilson, e li troviamo dispiegati fin dalla prima scena. Quando entriamo nella sala, nella buca dell’orchestra è pronto il pianista, e al lato opposto, su una piattaforma, siede un vecchio, immobile. All’improvviso, una presenza straniante: il palco è attraversato da una ragazza punk (Marianna Kavalieratou) in una danza solitaria e scomposta, una sorta di figura-segnale che compare nei vari cambi di scena. Il pianista accenna un motivetto e comincia un dialogo di luci, che rimbalzano sulle note. I proiettori illuminano la scena. Buio. Si riaccendono su una zona più in profondità. Buio. Centrano la platea, poi il vecchio, di nuovo il pubblico, poi la scena. È questo il biglietto da visita di Wilson: attraverso i giochi di luce egli ci invita ad entrare nella sua favola, ad abbandonarci allo spettacolo della sua Odissea, che saprà valicare i confini della lingua. E infatti solo dopo questo incipit sonoro-luminoso, arriva la parola: è il famosissimo “Andra moi ennepe mousa polytropon…” (Narrami o Musa dell’eroe multiforme…), il proemio dell’epos, recitato dal vecchio (Omero) nella pronuncia moderna, ma con un sapore quasi arcano. Mentre ci lasciamo cullare dalla melodia delle parole, in una luce algida la scena si riempie di personaggi vestiti di bianco (molti indossano maschere zoomorfe), che arrivano a balzelli e passettini, si fermano, e riprendono ad avanzare. È il Concilio degli dèi, in cui una elegante Atena persuade il tonante Zeus a liberare Ulisse dai lacci di Calipso. Poi la musica accenna un valzer, i personaggi cominciano a ballare. Buio, e si apre la scena successiva.

Questo primo tableau vivant (ce ne saranno 26), che raccoglie tutti i 17 attori, ha anche la funzione di mostrare le modalità recitative dell’opera: l’accentuata mimica facciale dei volti cosparsi di biacca si accompagna a movimenti del corpo raggelati in mosse sincopate, iterate o eccessivamente rallentate, e di conseguenza anche la voce è impostata in vocalizzi trattenuti o calcate sonorità. I personaggi perdono di elasticità, diventano marionette: a tratti hanno movimenti clowneschi da film muto, oppure sembrano figurine che si muovono a scatti, come prigioniere di un carillon (la musica, sempre presente, accentua tale effetto). Esiti di rilievo inoltre si hanno quando alcuni profili e posizioni richiamano altre immobilità, quelle di statue antiche o rappresentazioni vascolari.

Nella parte dei viaggi di Ulisse l’episodio di Polifemo è di grande impatto. Il Ciclope è corporeità sonora ma invisibile: in modalità off si sentono gorgoglii, ruggiti, rutti, stridore di denti e di mascelle, e al tempo stesso la sua fisicità (l’enorme testa e la mano) risulta dematerializzata, perché ridotta alla proiezione su uno schermo. L’esito è straniante e ricercato, come pure in altre situazioni, ad esempio quando la scena viene tagliata per tutta la sua larghezza da un “parapetto” (a imitazione di quello di una nave), che segna il confine tra umano e fantastico: nello spazio al di qua (verso la platea) ci sono i marinai che mimano la spinta energica sui remi (invisibili); al di là invece è il pericolo dei Lotofagi e del canto straziante delle Sirene, le fauci in cartapesta di Scilla, la tempesta provocata dall’otre dei venti – un orizzonte di fantasia che gradatamente risucchia con forza centripeta i compagni di Ulisse.

Lo spettatore, attirato dentro la fantasmagorica macchina di immagini, preso dal gioco luminoso del ‘vedi-non vedi’, comincia a interrogarsi sulla “realtà” di quanto vede. Le avventure di Ulisse sono effettivamente accadute? Oppure sono frutto della fervida immaginazione dell’eroe? O ancora, sono le favole della regina Arete per accompagnare al sonno Nausicaa? Dove sta la verità e dove la finzione? E’ ancora la luce di Wilson a insinuare il dubbio, di fronte alla sfilata di figure precarie nella loro esistenza scenica: via via, sembrano reali, si stagliano come apparizioni immateriali perché illuminate da un cono di luce particolare, sono inghiottite dal buio… La collaudata estetica di Wilson raggiunge quindi effetti particolari perché, oltre a potenziare il livello icastico del racconto odissiaco, esibisce l’ibrida natura (verità e finzione) dello strumento teatro.

Bravissimi gli attori, impegnati in molti ruoli, con effetti a tratti autoparodici: l’eroe dal versatile ingegno Ulisse (Stavros Zalmàs) sotto la direzione di Wilson è fissato in movimenti asettici e marionettistici; Maria Nafpliotou (Calipso, Circe, Penelope) brilla per la bellezza ieratica; Euriloco (Akis Sakellariou) si trasforma in una maschera espressiva con una sapiente varietà fonica. Spicca fra gli altri, assai apprezzata anche da Wilson, l’eclettica performance di Lydia Koniordou: la sua Arete è uno snodo narrativo importante, e nei panni di Euriclea (bambola vezzosa dai tratti orientali), mostra una vena lieve e quasi comica. Riuscita anche l’unità di azione dei compagni di Ulisse, docili marionette in balìa delle avventure, che nella seconda parte diventano Proci effeminati e paurosi.

L’allestimento, sulla base del testo di Armitage, sicuramente raggiunge un effetto antieroico, ma non vuole essere una blasfemia contemporanea che distrugge il mito. Al contrario, la stilizzazione raggiunta dal binomio luce-musica, che prevale di gran lunga sul logos della narrazione, crea “fotogrammi” di grande intensità: in alcuni momenti felici si ha l’impressione di essere di fronte al nudo archetipo. Ma è il balenio di un attimo, e già la luce si spegne o illumina un dettaglio inatteso. Metamorfosi, cambiamento, movimento: mentre l’Ulisse in scena diventa un manichino, i tratti proverbiali dell’Odisseo antico sono ora realizzati dall’incorporeità magica della luce, che disegna nuove geometrie di senso, costruendo un altrove che espone dichiaratamente tutta la sua finzione.

Wilson invita lo spettatore a recuperare uno sguardo ingenuo e infantile, per un “viaggio della mente”, nel sogno e in una favola che fluisce libera e lieve. Questa è la sua Odissea, fissata in un mosaico di immagini e fotogrammi della memoria. Alla fine forse anche noi diremo con Nausicaa “Che bella storia!”, e tutto sarà pronto a ricominciare, come succede nell’epilogo, che duplica la scena iniziale.

Gilda Tentorio