La mappa di Utopia descrive un territorio a forma di luna crescente, con piccoli insediamenti urbani e fortezze che si specchiano sull’acqua di una laguna. Quello scenario placido, immaginato da Thomas More, potrebbe sembrare – allo sguardo superficiale dell’occasionale viaggiatore – mutuato da una Lugano di fine maggio: silenziosa e assolata, permeata da una vitalità quieta. Che non lontano dalla città svizzera prendesse forma e dimora un’altra utopia, ben più concreta e reale ma altrettanto immaginifica, appare perfettamente plausibile: nel paesaggio fiabesco del Canton Ticino trovò infatti il proprio fondale il sogno di Monte Verità, cristallizzandosi su una collina sopra Ascona, a poco più di quaranta minuti d’auto da Lugano. Quell’esperienza, di cui resta nell’immaginario collettivo un’incrostazione tanto affascinante quanto pittoresca, costituisce oggi il nucleo ideativo del Lugano Dance Project: nel guardare al modello della celebre comunità danzante, il festival – diretto da Carmelo Rifici, con la consulenza di Lorenzo Conti – ha invitato un nutrito gruppo di artiste e coreografe a dialogare tanto con le matrici di pensiero a esso sottese, quanto con gli spazi del LAC e della città. È tuttavia nel sottotitolo della rassegna – Utopie, con la sua genealogia di formulazioni storiche e filosofiche, con quella sua etimologia ambigua, in bilico tra idealità e irrealtà – che emergono le visioni di cui la manifestazione, quest’anno alla sua prima edizione, si fa latrice: da un lato un afflato civile, un desiderio di confrontarsi con alcune delle principali istanze del presente; dall’altro un rischio di separatezza, di esilio dal mondo, più simile in questo all’isola vagheggiata da More che alle capanne erette ad Ascona.

Annie Hanauer, “A Space for all our Tomorrows”, Caroline Minjolle Steps

Antiaccademica, antidogmatica, la concezione del corpo propugnata dal gruppo monteveritano – raccoltosi prima intorno a Ida Hofmann e a Henri Oedenkoven, poi sempre più identificatosi con il magistero coreutico di Rudolf von Laban – trovò linfa ed espressione nella danza libera: finalmente sgravato dai vincoli dell’abbigliamento borghese, così come dai cascami di una cultura che ne normalizzava la relazione con l’ambiente circostante, il corpo assumeva una dignità e una centralità inedite. Quella stessa preminenza, quello stesso slancio di liberazione emergono oggi sui palcoscenici di tutto il mondo: nuovamente al centro del conflitto tra potere e autonomia, il corpo si fa soggetto e oggetto di un cambiamento di paradigma, di una rinnovata filosofia. È un corpo politico: marginalizzato, troppo a lungo oscurato da un dominio maschile e occidentale, reclama adesso luce, spazio, ascolto. Sulle utopie del corpo insistono le creazioni di Virginie Brunelle e di Annie Hanauer, due delle tre artiste – insieme alla svizzera Lea Moro – cui il festival ha commissionato lavori originali: e i risultati sono coreografie che già nei loro titoli – Fables per Brunelle, A space for all our tomorrows per Hanauer – sembrano voler dichiarare un proprio statuto di ontologica distanza dall’ordinario, e al contempo un tentativo di edificare, a partire da essa, modelli differenti. Se Fables (qui approfondito da Ivan Colombo) affronta il femminile come archetipico modello di resistenza e opposizione, Annie Hanauer porta in scena corpi disabili: eppure sarebbe più corretto parlare di corpi disabilitati, a lungo relegati nell’ombra dalla norma abilista, dalla conformazione ai canoni, dalla distanza da uno standard medico-scientifico. È così al di sopra di un fondale di buio che emergono, progressivamente, le fisicità di Giuseppe Comuniello e Laila White, oltre a quella della stessa Hanauer: un lento crescendo di luce ne evidenzia, sul palco del Teatro Foce, le linee organiche tanto quelle postorganiche, il continuum tra carne e metallo. Al centro della scena, Deborah Lennie canta di un mondo perfetto; la sua presenza e la sua voce accompagnano il susseguirsi di soli e momenti dialogici, in una vicinanza che è manifestazione di cura e osservazione partecipe. Lennie abita il palco insieme ai performer, è accanto a loro e con loro interagisce nelle sequenze corali, contribuendo a creare una comunità nella quale il singolo elemento, con la propria specificità – le lunghe diagonali percorse da White sulle stampelle, oppure gli affondi verso il proscenio di Comuniello, straordinario performer non vedente, o infine la lieve danza di Hanauer, le cui linee di movimento si dipanano dal torace alla protesi – emerge soltanto come nodo di una più ampia galassia di relazioni. Proprio nei duetti, A space for all our tomorrows propone le soluzioni più felici: mostrando una serie di tentativi di cooperazione, di costruzione di equilibri tanto precari quanto resistenti, il lavoro rivela maggiore efficacia scenica. Ecco White e Comuniello sostenersi l’un l’altra, forti dello spazio di appoggio garantito dalle stampelle, ecco le protesi mutare significato, e diventare nell’arte di Hanauer nuove superfici di contatto, capaci di dilatare il tempo in cui è possibile avvicinarsi, toccarsi, conoscersi. Creatrice di performance e workshop inclusivi e accessibili, la coreografa angloamericana invita lo spettatore a ricalibrare lo sguardo, a interrogarne il pregiudizio normalizzante – al quale troppo spesso anche l’estetica e la critica sono sembrate piegarsi. In quel “nostri domani” del titolo sembrano così risuonare le parole conclusive del manifesto programmatico di Al Di Qua Artists, un «gruppo di artist e lavorat dello spettacolo con disabilità» nato nel 2020 durante i mesi più duri della pandemia, e di cui lo stesso Comuniello è socio fondatore: «non siamo qui per voi. Siamo qui per noi. Per prendere lo spazio che non ci è mai stato concesso». Assistere a questa piccola, o gigantesca, rivoluzione, fa sperare che si tratti ben più che di un mero sogno.

Cindy Van Acker, “Shadowpieces VI – Fête en blanc”, LAC 2022

È tuttavia nelle ospitalità che Lugano Dance Project sembra avere indagato il destino stesso delle utopie, tanto di quelle storiche, come Monte Verità, quanto di quelle ancora da erigere: la possibilità che esse abitino il tempo presente e la città, aprendo i propri confini all’incontro, all’incidente, all’errore insito nel reale. Animando la suggestiva piazza Luini, la vigorosa performance hip-hop Ta Fête di Muhammed Kaltuk e dei danzatori della compagnia MEK ha tentato di coinvolgere gli astanti, ignari cittadini o turisti di passaggio, in un liberatorio cypher, un cerchio dove ballare a turno e sperimentare un’orizzontalità di sguardi e condivisione: eppure è sembrata scontare un’eccessiva frontalità della fruizione, una diffidenza del pubblico, forse anche una difficoltà a mettersi in relazione con il paesaggio e la vertiginosa architettura del LAC, con il lago, con le montagne che più oltre si stagliano. Proprio il dialogo che è intercorso tra i tanti ambienti del Cantiere Navale della Società Navigazione del Lago di Lugano e le quattro eccezionali performer di Shadowpieces di Cindy Van Acker, ha invece ricordato, una volta ancora, la prismatica varietà di sensi, di stratificazioni, di universi che la danza è in grado di squadernare quando abita, con intelligenza, lo spazio pubblico. Tra le più prestigiose voci della danza europea, la coreografa belga ha portato a Lugano quattro dei suoi dieci soli, elementi di un ciclo creato in stretta collaborazione con gli interpreti. Ad aprire il collage di pezzi è stato il sesto frammento, Fête en blanc, eseguito da Sonia Garcia su una chiatta ormeggiata a breve distanza dalla riva, quintata da un’escavatrice meccanica posta a prua. È dietro di essa che si cela la performer, negli istanti che precedono il suo silenzioso ingresso in piena vista e la sua camminata quieta, verso il giradischi su cui posiziona un vinile dell’Opus 17 di Eliane Radigue. Ciò che da quel momento dilaga, nello spazio metallico della chiatta, è una danza intima, una conversazione tra sé e sé che gli spettatori spiano, osservano quasi indesiderati. Tra citazioni ballettistiche e accenni di mimo, Garcia interpreta un soliloquio di ricordi, evocando tracce di fantasmi, le ombre di un passato che non ci è dato conoscere: pose da marionetta si alternano a disarticolazioni, il viso si contrae in smorfie di dolore, le braccia si tendono, come un fucile, verso un nemico invisibile. Ci interroghiamo su cosa stia sussurrando, mentre fissa un orizzonte lontano; ci domandiamo quale tesoro segreto stiano cercando le sue mani, mentre si insinuano tra le lastre di metallo della chiatta, a esplorare un luogo irraggiungibile prima che la puntina cessi di muoversi e Garcia scompaia, di nuovo, agli occhi del pubblico.

Cindy Van Acker, “Shadowpieces I – Mélancolie de l’espace”, LAC 2022

Su un prato poco distante, seduti sotto una fila di bassi alberi, assistiamo invece ai pezzi I e IX, Mélancolie de l’espace agito da Daniela Zaghini e Verso danzato da Anna Massoni. Sulla musica di Ryoji Ikeda, Zaghini costruisce una partitura gestuale di rigorosa geometria: le chirurgiche variazioni di equilibri sono strumenti per una progressiva conquista dello spazio, per un millimetrico disegno di piani e linee che improvvisamente si sfaldano e altrettanto repentinamente si ricompongono in concrezioni di poliedri, di volumi anatomici. Le mani incorniciano il volto e gli occhi, come binocoli puntati verso un altrove; si stringono intorno al collo, si chiudono a pugno, costellando con interiezioni fiabesche una drammaturgia di seducente astrazione. Massoni sembra invece sfidare il pianoforte di Arnold Schönberg: quasi perennemente di spalle – come in un celebre autoritratto del compositore – insegue con salti e traslazioni il rapido susseguirsi dei tasti bianchi e neri. Soltanto per brevi momenti mostra il profilo del volto, o affida alle braccia il compito di segnare il tempo, in una rincorsa degli accordi e delle note: le mani, bloccate dietro la schiena, sigillano una sequenza di fulminante, jazzistica ironia.

No Birds di Fred Frith accompagna invece i movimenti di Stéphanie Bayle nel quinto pezzo del ciclo, Les Ephémères: a conclusione del percorso nei tanti ambienti del Cantiere Navale, è di nuovo la chiatta, instabile e ibrido luogo votato al viaggio, ad accogliere la danza e gli sguardi. Ancora una volta è il passato a determinare il gesto: una lettera vergata a mano, e accuratamente piegata nella tasca dei pantaloni, è la scaturigine di un fraseggio capace tanto di potenza – i pugni pronti a boxare in alcune rapide sequenze – quanto di levità: il sorriso che squarcia la tensione, le dita che percorrono i lineamenti del viso. È una danza di immagini quotidiane, di reminiscenze di una vita che prosegue, lontano dalla scena oppure proprio lì accanto: e che infine accoglie nuovamente Bayle, con le mani celate nelle tasche, la testa bassa, e i passi che la portano al limite della chiatta, verso l’acqua del lago. L’utopia, forse, è lì, oltre il visibile, ma a pochi metri da noi.

Alessandro Iachino


Prima che si accendano le luci, e prima ancora di vedere la materia scenica di Fables, la coreografa Virginie Brunelle ci fa ascoltare il suono amplificato di corpi percossi e sospiri. Per pochi secondi si percepiscono solo quei suoni prima che si riveli, con garbo, l’interazione tra persone. Gesti violenti, decisi, umani. Gesti complessi che disegnano relazioni complesse, accompagnati da suoni di carne e fiato. Un microfono amplifica la fonosfera, e danza al pari di uno dei dodici interpreti che abitano la comunità sul palco.

Con questo ultimo lavoro, in cartellone al Lugano Dance Project, Brunelle rende omaggio all’esperienza storica del Monte Verità, una comunità utopica che agli inizi del secolo scorso si stanziò in una collina del Canton Ticino conducendo una vita vegetariano-nudista; ma soprattutto indaga il movimento femminista attraverso una serie di immagini crude ed evocative, segnate da una cifra stilistica fisica e rigorosa. La partitura coreografica propone immagini ad alto impatto emotivo, esaltate dal disegno luci di Martin Labrecque: una sposa sola che condivide il dolore del parto; una donna avvinta da nastri neri che viene trattenuta da sei uomini; un essere senza volto avvolto in un bozzolo di lycra nera, incapace di trattenere il riso. Tutte immagini che s’incarnano in un rapporto dialettico tra corpo solo e comunità di corpi, mediato da uno spazio scenico abitato da pochi oggetti in movimento e un suggestivo susseguirsi di costumi e nudità.

Virginie Brunelle, “Fables”, David Wong

Un ultimo elemento concorre alla costruzione dello spettacolo: la musica di Philippe Brault (scritta appositamente per Fables) e suonata dal vivo sul fondo della scena con un maestoso pianoforte a coda. È la prima volta che Brunelle lavora con un compositore – come rivela durante un incontro con il pubblico – e questo ha condizionato profondamente il metodo compositivo e il modo di raccontare la comunità. «Durante la costruzione», racconta un danzatore della compagnia, «l’idea di comunità è stata la mia partenza: imparare a prendere la giusta distanza per osservare il punto di vista degli altri». Una comunità disegnata come presente, attiva e spesso invadente. Una comunità che tende a imbrigliare, pilotare, giudicare. Una comunità, però, da cui arriva anche un certo supporto.

Sono braccia che sorreggono. Sono mani che accarezzano. Fables sceglie così di offrire una narrazione non rassicurante: la dimensione umana dell’“essere con l’altro”, così come ogni forma storica di utopia, sembrano necessariamente connesse alla violenza e alla prevaricazione. Anche dopo gli applausi restano vive domande e risposte che Brunelle tenta di affidare al pubblico in sala: e il titolo Fables (favole) sembra rimarcare allo stesso tempo la necessità di utopia e la inevitabile illusorietà di questa speranza.

Ivan Colombo


foto di copertina: Virginie Brunelle, Fables, David Wong

A SPACE FOR ALL OUR TOMORROWS
coreografia e ideazione Annie Hanauer
assistente coreografa Susanna Recchia
dramaturg Silja Gruner
interpreti Annie Hanauer, Laila White, Giuseppe Comuniello
musica dal vivo Deborah Lennie
composizione musiche Deborah Lennie, Patrice Grente
costumi Valentina Golfieri
disegno luci Marzio Picchetti
audiodescrizione Camilla Guarino
tecnico luci Nicolò Baggio
tecnico del suono Pietro Maspero
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Danzabile
in coproduzione con IntegrART – un progetto di rete del Percento culturale Migros
una coproduzione nell’ambito del Fondo programmatori di Reso – Rete Danza Svizzera,
sostenuto da Pro Helvetia – Fondazione svizzera per la cultura
con il sostegno di DECS Repubblica e Cantone Ticino – Fondo Swisslos, Fondazione Lugano per il Polo Culturale, Manitou Fund, Spazio PLIM – creazioni, Landis & Gyr Stiftung
in collaborazione con Franklin University
presentato nell’ambito di Lugano Dance Project e Steps, Festival della Danza del Percento Culturale Migros

TA FÊTE. A CYPHER RITUAL
coreografia Muhammed Kaltuk
danzatori Egon Gerber, Witthawat Tonja, Elina Kim Eduardowna, Lea Korner, Sophie Chioma
live DJ set Massimiliano ‘iarvo’ Chiappa
produzione Company MEK

SHADOWPIECES
ideazione Cindy Van Acker
coreografia Cindy Van Acker in stretta collaborazione con i danzatori
suono Denis Rollet
produzione Cie Greffe
in coproduzione con La Bâtie – Festival de Genève, ADC Genève, CND Centre national de la danse Paris, La Place de la Danse – CDCN Toulouse/Occitanie
con il sostegno di Stanley Thomas Johnson Foundation

FABLES
coreografia Virginie Brunelle
interpreti Isabelle Arcand, Nicholas Bellefleur, Sophie Breton, Alexandre Carlos, Julien Derradj, Chi Long, Milan Panet-Gigon, Ernesto Quesada Perez, Marine Rixhon, Peter Trosztmer, Lucie Vigneault, Evelynn Yan
ballerina sostituta Marie Eve Quilicot
pianista Laurier Rajotte
drammaturgia Nicolas Berzi
ripetitrice Claudine Hébert
composizione piano e colonna sonora Laurier Rajotte
composizione colonna sonora e ambiente sonoro Philippe Brault
sonorizzazione Joël Lavoie
scene Marilène Bastien
costumi Elen Ewing
luci Martin Labrecque
produzione Compagnie Virginie Brunelle
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura
e con Danse Danse, Centre National des Arts d’Ottawa, Harbourfront Centre
con il sostegno di Fonds de création du Centre National des Arts, Conseil des arts et des lettres du Québec, Canada Council for the Arts, Conseil des arts de Montréal