«Impossible to land, impossible to come back»
Łukasz Twarkowski, Instagram, 21 giugno 2024

Cominciare dalla fine può non sembrare una buona idea, ancor meno quando, per farlo, si cita un post condiviso su un profilo social. Eppure, nella sua capacità di sintesi, questa frase – pubblicata da Łukasz Twarkowski a meno di una settimana dall’ultima delle tre date di Respublika ad Atene – restituisce molte delle dimensioni spazio-temporali vissute da coloro che hanno assistito al gigantesco lavoro del regista polacco e della sua compagnia, prodotto da Onassis Stegi (il settore dedicato allo spettacolo dal vivo della Fondazione Onassis) e andato in scena al Terra Vibe Park di Malakasa.
Respublika è stato molte cose insieme: uno spettacolo, un rave, una riflessione sul senso di comunità e sull’idea che abbiamo oggi di teatro, un lavoro sul corpo degli spettatori, un esperimento sociale, un momento unico e irripetibile legato allo spazio e al tempo in cui ha preso vita. Ma allo stesso tempo è stato qualcosa di profondamente diverso e di radicalmente nuovo: più di uno spettacolo, più di un rave, più di un atto estetico o politico. «Più di» è una sproporzione necessaria per descrivere questa “opera-mondo”, ed è forse la formula che può meglio restituire un evento i cui confini sono difficili da circoscrivere.

Di questo magma esperienziale, che ha continuato a espandersi in chi lo ha attraversato anche a giorni dalla visione, è testimonianza un ininterrotto flusso di commenti, foto, video condivisi sui profili di chi ha partecipato. La comunità effimera di Respublika ha continuato così a esistere – e forse esiste ancora? – e a trovare un terreno, seppur virtuale, di condivisione anche a molti chilometri dal luogo in cui ha preso vita, una grande spianata circondata dalle montagne a nord di Atene. Respublika, d’altra parte, segna l’apice di una fitta tournée europea del regista polacco, che ha toccato anche Milano con Rohtko, spettacolo in programma al festival Presente indicativo del Piccolo Teatro (dal 16 al 18 maggio 2024), grazie al quale  Twarkowski si è fatto conoscere dal pubblico italiano, generando un passaparola senza precedenti anche fuori dal circuito teatrale.

La mappa dell’allestimento presso Malakasa

Rievocare il passato per immaginare un possibile futuro

La complessa drammaturgia di Respublika potrebbe essere descritta come il tentativo di trattenere qualcosa che si è perso: un’esperienza conclusa ma indimenticabile che Łukasz Twarkowski prova a rievocare con tutti i (molti) mezzi a sua disposizione. L’antefatto è semplice. Nel 2020, in piena pandemia, la compagnia del regista polacco si è messa alla prova con un esperimento di coabitazione “in the middle of nowhere”, cioè in uno spazio vergine della foresta lituana: ognuno dei quattordici membri del gruppo ha lasciato la propria famiglia, e per alcuni mesi ha vissuto in una provvisoria infrastruttura abitativa appositamente costruita. Qualcosa è andato bene ed è stato memorabile (innamoramenti, matrimoni, senso di fratellanza e sorellanza, la percezione di riappropriarsi d’improvviso della propria vita), qualcosa è andato male (i conflitti, la stanchezza, la consapevolezza che la piena libertà degli altri è anche una limitazione della propria). Finita la stagione estiva, con il freddo incombente a irrigidire i corpi e gli animi, il gruppo si è sciolto.

Il Terra Vibe Park di Malakasa può dunque essere visto come il luogo di una ricostruzione, non diversamente da quei siti storici che tentano di far rivivere all’avventore i connotati e le atmosfere di un contesto o di un’epoca ormai perduta.
Nella grande spianata incorniciata dalle montagne dell’Attica sono state collocate diverse scatole sceniche in acciaio e legno; una cartina del sito, messa a disposizione da Onassis Stegi, orienta lo spettatore nella provvisoria urbanistica del luogo. Ogni costruzione riproduce una stanza della struttura abitativa realizzata dagli attori in Lituania: una sala da pranzo, una sauna, le camere da letto, la doccia. Ora però la comunità che abita quei luoghi non è più composta solo da quattordici persone, ma da qualche migliaio: indossato il braccialetto, e passati i tornelli, ogni spettatore entra senza saperlo a far parte di un vero e proprio esperimento sociale. Respublika ha dunque, per un verso, l’obiettivo di far assaggiare agli spettatori un distillato di quello che è stato vissuto allora: una playlist dei momenti più forti, in bono o in malo, che non hanno tanto uno scopo informativo (chi si è innamorato di chi, chi ha litigato con chi, come nel Grande Fratello o in Temptation Island), quanto immersivo ed esperienziale. Per un altro verso l’evento ambisce a riaccendere le stesse questioni, gli stessi entusiasmi, le stesse speranze che avevano originato la prima coabitazione, ma questa volta all’interno di una cerchia ben più numerosa, per così dire ad amplificatori accesi.

foto: Pinelopi Gerasimou

Ma come si fruisce nel concreto questo ambizioso re-enactment? Lo spettatore può entrare nelle stanze e rivivere con gli attori un momento specifico – per esempio può intrufolarsi in sala da pranzo e farsi versare un piatto di zuppa, proprio mentre viene “messa in scena” l’ultima cena prima dello scioglimento del gruppo – oppure può esplorare liberamente altre aree in quel momento prive di “azione” (per esempio fare una sauna mentre il locale è vuoto); o, ancora, può allontanarsi dalla folla e sdraiarsi sul prato con un birra. Intanto, sul palco centrale, due enormi schermi fungono da fulcro spaziale e drammaturgico: qui vengono proiettati alcuni estratti di quello che accade dentro le stanze (e che viene ripreso live da almeno tre cameramen per volta), oppure vengono condivise alcune riprese rubate ai momenti più intensi vissuti nella foresta lituana o, ancora, compaiono i volti di gruppi di spettatori ignari che si aggirano nelle camere. Guardando gli schermi si può dunque farsi un’idea di tutto quello che accade nel parco? Niente affatto. Una voce registrata, già all’inizio dell’evento, consiglia agli spettatori di non farsi portare fuori strada dall’ansia bulimica di tenere tutto sott’occhio: è semplicemente impossibile.

Eppure, nella voluta frammentarietà della composizione performativa, è possibile riconoscere una rigorosa struttura in tre parti, marcata da titoli a caratteri cubitali (in stile Gaspar Noé) nello schermo centrale, e caratterizzata da una libera ma percettibile coerenza tematica. Nella prima sezione, Twarkowski e il suo ensemble sembrano infatti seguire le tracce dell’utopia: gli episodi e le atmosfere raccontano le bellezze di una vita finalmente capace di contrastare i ritmi e l’isolamento dettati dal capitalismo, tra una riacquisita libertà del corpo e una nuova attitudine relazionale svincolata dai meccanismi dell’iper-produttività. Nella seconda parte, cominciano a fare capolino i problemi e le contraddizioni; come spesso accade nelle esperienze comunitarie, i rapporti si deteriorano e si affaticano, la troppa libertà esperita finisce per trasformarsi in una nuova forma di schiavitù (cioè nel vincolo alla convivenza). L’ultima parte è, come avremo modo di osservare, interamente dedicata alla dimensione del rave. Con la capacità di sintesi che è un marchio di fabbrica dello stile Twarkowski — quasi un’attitudine comunicativa al claim  — lo schermo chiosa: «there is no utopia, there is no distopia. There is only chaos».  Si suggerisce così, icasticamente, che non è possibile etichettare i tentativi di nuove forme comunitarie come successi o fallimenti, ma bisogna esplorarne e viverne il fuoco e continuare ad analizzarne gli intenti: rievocare quanto è accaduto in passato per esplorare e immaginare un possibile futuro. Al termine delle sei ore, sulle note di Cucurrucucú Paloma di Caetano Veloso, i tecnici e gli attori (per un totale di oltre quaranta persone coinvolte nell’evento) si concedono un lungo momento di abbracci sul palco centrale: si emozionano per ciò che hanno condiviso e che sta per giungere al termine, che è allo stesso tempo l’evento Respublika, e l’irripetibile esperienza vissuta nella foresta lituana. Anche la cerchia allargata della comunità, senza spiegarsi del tutto perché, scopre guardandoli di provare la stessa nostalgia: è soltanto il dolore del ritorno (nòstos, appunto) da quella nottata ateniese? O è piuttosto la sensazione di una più ampia perdita sociale?

foto: Pinelopi Gerasimou

Il rave come pratica comunitaria

L’esperienza della comune lituana, intesa come la creazione di una zona autonoma e uno spazio di libertà, è fin da subito per Twarkowski e per il suo gruppo connessa alla pratica del rave. I partecipanti, nel corso dei mesi passati nei boschi, hanno approfondito la storia del raving, condividendo le loro esperienze personali di fruitori e arrivando a organizzare un rave al giorno. Va da sé che la techno e il ballo diventano presto gli strumenti prescelti dal gruppo per condurre una ricerca sul senso di comunità e per provare a immergersi in sé stessi e negli altri, così da  contrastare l’ordine predeterminato delle cose. Se questa pratica, quotidianamente messa in atto, ha costituito dunque il centro dell’esperimento, la sua frequenza ha anche, per certi versi, causato la sua fine: fare rave richiede molta energia — afferma un’attrice nel corso di un filmato girato direttamente nella comune del 2020.

Respublika quindi è interamente attraversata dalla cultura rave: nella musica, nell’estetica degli abiti e dei luoghi, oltre che nelle sezioni della creazione che al rave sono interamente dedicate, ovvero l’intera “Part III” e una serie di momenti intitolati “Break”.
In queste fasi, pensate come momenti di pausa dal flusso del racconto, gli attori e le attrici si alternano alla consolle al centro della scena, utilizzando la musica come mezzo espressivo e come connettore attraverso cui la comunità salda “fisicamente” i suoi legami. Come in Rohtko, ma qui in maniera ancor più organica, la musica occupa quindi un posto primario nella grammatica del regista, accanto al video, alle riprese live, alle ricostruzioni sceniche e alla presenza degli interpreti. Se pensiamo che l’opera di Twarkowski — anche per come ci viene presentata — è, di fatto, il reenactment di frammenti di un’esperienza, ciò che determina questa rievocazione è, prima di tutto, il lavoro sul corpo degli spettatori. L’adesione e la partecipazione del pubblico a Respublika — e qui sottolineiamo una delle questioni più centrali e radicali dell’operazione — è tutt’altro che intellettuale e cerebrale.
Non si tratta tanto di lavorare attorno a un tema, si tratta piuttosto di costruire un linguaggio, o meglio un equilibrio di linguaggi, che permetta di affrontare una questione con un livello di partecipazione e coinvolgimento potenziato.

E questo coinvolgimento è innanzitutto corporeo.
Anche le parentesi più dolci e nostalgiche dello spettacolo (come quella conclusiva sopra menzionata) operano in questo senso, andando a intercettare qualcosa di più profondo del semplice rispecchiamento. Il portato primordiale del ritmo, la forza e la delicatezza delle immagini proiettati sugli schermi, insieme a una struttura spettacolare sofisticata e curata nei minimi dettagli, contribuiscono a creare un evento in cui il livello di liveness è esponenzialmente più alto rispetto al consueto. Anche la scelta di un genere come la techno – che non a caso, al pari del teatro, beneficia, molto più di altri stili musicali, di una fruizione in presenza lavorando su frequenze che hanno a che fare più con l’istinto che con il ragionamento – contribuisce a comporre un’idea registica, e più in generale di arte, che punta sull’essere iper live. Ciò non significa che gli spettatori vivano uno stato di continua sollecitazione fisica: la possibilità di spostarsi liberamente nello spazio e la certezza di non poter vedere tutto – confermata dalla voce all’inizio dello spettacolo – trasformano il pubblico in qualcosa di molto simile a uno stormo di uccelli in cui i membri della comunità puntano inconsapevolmente nella stessa direzione, ma si avvicinano e si allontanano autonomamente, disgregando e ricostruendo il gruppo in modo assolutamente naturale e discontinuo.

foto: Andreas Simopoulos

Twarkowski, un regista del nuovo millennio

Sarà capitato, a chiunque abbia preso parte anche a una sola discussione pubblica sullo spettacolo dal vivo, di sentire (o anche di pronunciare) la frase «il teatro crea comunità!», o «il teatro fa vivere esperienze fuori dall’ordinario». Eppure chi frequenta i festival e le sale teatrali sa bene quanto sia raro percepire in un luogo o in un evento un’autentica dimensione collettiva ed erotica, intesa in senso ampio come anelito desiderante e vitale, come sguardo non rassegnato sul mondo. Dal nostro osservatorio di spettatrici assidue della scena, possiamo affermare senza timore di esagerazione che Respublika è in questo senso una delle esperienze più potenti degli ultimi anni. Ma cosa ha prodotto questo effetto? Oltre agli aspetti già menzionati (la natura del luogo; la dimensione del rave; le enormi possibilità tecniche) c’è forse un’altra questione su cui vale la pena soffermarsi più a fondo, e cioè il fatto che Łukasz Twarkowski — a differenza di molti colleghi e colleghe di fama internazionale, da Milo Rau a Christiane Jatahy fino a Tiago Rodrigues — è completamente indifferente all’esibizione intellettuale e di cultura. Intendiamoci: i suoi spettacoli e le sue dichiarazioni pubbliche non sono prive di riferimenti, richiami e citazioni (nulla di diverso ci si potrebbe attendere, del resto, da uno storico collaboratore di Krystian Lupa). Ma se il precedente Rohtko – con il suo indagare temi apparentemente colti, come l’infinita riproducibilità dell’opera d’arte – poteva ingannare lo spettatore, dandogli l’erronea impressione di un dotto approfondimento teorico, Respublika chiarisce definitivamente l’equivoco: l’arte dal vivo per Twarkowski non ha a che fare con l’attraversamento intellettuale ma, come abbiamo osservato, con l’esperienza fisica e corporea che riesce a originare. «Niente di nuovo!», potrebbe obiettare qualcuno, pensando alle grandi esperienze immersive degli anni Settanta (Dyonisus in ’69 di Schechner, tra le tante che si potrebbero citare). Eppure qualcosa di nuovo c’è, perché Twarkowski si mostra capace di accostare quella tradizione alle più avanzate tecnologie contemporanee, riuscendo a far incontrare – e deflagrare – l’universo dei ritiri spirituali e le nevrosi dei social network, la sete di esperienze comunitarie e le ossessioni dell’iperconnessione. Nella sua “opera-mondo” sembra rimanere imbrigliata la società intera, con le sue miserie e con le sue bellezze, con le sue superficialità, i suoi compulsivi “scroll”, i suoi disturbi di attenzione: ed è per questo  necessario, se si vuole comprenderla a fondo, abbandonare gli strumenti critici e di visione novecenteschi che ci ostiniamo a utilizzare. Un esercizio vertiginoso che troppo raramente si ha la fortuna di fare.

Maddalena Giovannelli e Camilla Lietti


in copertina: foto di Andreas Simopoulos

Crediti completi: https://www.onassis.org/whats-on/respublika