di Luigi Pirandello
regia di Monica Conti
visto al Teatro Sala Fontana di Milano_ 15 gennaio-2 febbraio 2014
Un interno borghese di inizio Novecento, il rumore della pioggia in sottofondo, un lugubre velo nero come sipario costituiscono la evocativa scenografia di L’uomo, la bestia e la virtù, commedia tratta dalla novella Richiamo all’obbligo (1906).
Monica Conti la affronta dopo l’Innesto, altra commedia pirandelliana poco rappresentata con cui condivide il tema del triangolo, già sviscerato dall’autore in numerosi drammi e novelle: il “trasparente” signor Paolino (l’Uomo) intrattiene una relazione con la “pura” signora Perella (la Virtù), trascurata da un marito perennemente assente e che non adempie ai doveri coniugali. Quando la donna rimane incinta, il tranquillo e remissivo professore si vede costretto, per giustificare la gravidanza, a spingerla fra le braccia del recalcitrante consorte nell’unica notte che egli trascorre in casa, aiutandola con consigli da maitresse e dolci afrodisiaci.
Ancora una volta Pirandello irride l’ipocrisia e la falsità della società piccolo-borghese di inizio secolo attraverso il suo umorismo, che sottolinea la contraddizione fra forma e vita, apparenza e realtà. La regia porta alla luce il tema della maschera attraverso trucchi pesanti (quasi carnevalesco quello della protagonista), toni esasperati, infantilismi caricaturali. L’unico personaggio che sembra sfuggire alla prigione della maschera – e dunque dell’apparire – è la volitiva cameriera di casa Perella, interpretata dalla stessa Monica Conti. Come si legge nelle note di regia “il lavoro è centrato sul doppio, che è presente nell’opera sia a livello tematico che linguistico”. La duplicità, la contraddizione fanno parte della natura umana, mentre il linguaggio spesso ha la funzione di occultare, più che di esprimere, il fondo magmatico che vi si agita.
La messa in scena, piuttosto fedele al testo e alle indicazioni registiche e scenografiche dell’autore, si avvale della bella interpretazione di Roberto Trifirò, non nuovo al repertorio pirandelliano, abile nel trasmettere il pacato cinismo del professore che, pur equilibrato e conciliante, si mostra pronto al compromesso pur di non perdere i meschini privilegi di cui gode. La signora Perella, una Maria Ariis che passa con nonchalance dal pudico sussurro alla risata più volgare, dopo qualche lacrimuccia, si “sacrificherà” senza troppa fatica e alla fine apparirà piacevolmente soddisfatta, come del resto il suo stimabile amante: l’ordine borghese è salvo.
A distanza di quasi un secolo dal debutto di questo “apologo in tre atti” (la prima rappresentazione, al Teatro Olimpia di Milano nel 1919, sconcertò il pubblico per la scabrosa tematica e la recitazione sguaiata), Monica Conti ci ricorda, con un allestimento calibrato, quanto Pirandello abbia ancora da dirci. Questi intrecci umani paradossali, queste esistenze limitate dai toni farseschi rispecchiano non solo le contraddizioni di una società dal retaggio contadino e patriarcale che si affacciava alla modernità, ma la contraddizione insita nella natura umana e nel teatro stesso: come dice il professor Paolino ai suoi improbabili alunni, in greco “commediante” si traduce “ipocrites”.
Simona Lomolino