Che cos’è la queerness? Può essere definita? Forse no: prendendo le mosse dai sentieri più radicali della filosofia novecentesca, la teoria queer parla spesso la lingua dell’anti-essenzialismo, affrancandosi dal cosa e procedendo invece, con le dovute accortezze, nei paraggi del come. Dunque la queerness ne può emergere come movimento di rottura variamente associato – tra gli altri – ai temi del desiderio e della relazione con l’Altro. Di frequente, una simile concezione chiama la distruzione dello status quo (ossia del come ritenuto ovvio) oppure, in maniera speculare e con il medesimo fine, la sua accentuazione parossistica. In ambito cinematografico, si tratta di due spinte solidali che – per esempio – coesistono in Queer di Luca Guadagnino, tre le reminiscenze (scenografiche, cromatiche, narrative) del melodramma hollywoodiano e un afflato trasognante, animato dalla devastazione delle forme.
Di quando in quando, però, il discorso estetico queer può imboccare altre vie, come nel caso di Alain Guiraudie e di un film, L’uomo nel bosco (traduzione italiana dell’originale Miséricorde), che sembra parlare di relazioni LGBTQIA+ in assenza di un linguaggio altro, distruttivo o parossistico. Nell’ultimo lungometraggio del cineasta francese, un uomo qualunque, dopo alcuni anni di lontananza, fa ritorno nel proprio paese natale, in Occitania, in occasione del funerale del vecchio datore di lavoro; lì, in una manciata di giorni, sconvolge gli equilibri, anzitutto emotivi, del microcosmo locale. È il caso, nell’anno di The Visitor di Bruce LaBruce, di un nuovo estraneo pasoliniano? Ha, Miséricorde, l’andamento di un teorema? Entro gli schemi abituali di una piccola comunità di provincia, il protagonista Jérémie si aggira come fosse ancora di casa e, senza alcun sotterfugio o gesto eclatante, intesse nuovi rapporti che paiono contraddire alcune secolari regole non scritte – regole tacitamente patriarcali, magari annunziate da Dio. Non è tanto, il suo, un fare gentile o enigmatico: più semplicemente, è un fare che non abbisogna di aggettivi, soprattutto alla luce dell’indeterminatezza che deriva dalla rimozione della descrizione psicologica. In termini di scrittura, Guiraudie compie infatti un lavoro di sottrazione anti-psicologista che si appaia, sul versante estetico, con uno sguardo secco e privo di fronzoli, quasi classico nelle sue coordinate di base. In L’uomo nel bosco mancano crepe esibite e, soprattutto, mancano spiegazioni. Ma il desiderio non necessita di spiegazioni; ha semmai bisogno di comportamenti che lo esprimano e che ne riconoscano l’espressione.
Riprendendo la lezione di Robert Bresson, Guiraudie trascina lo spettatore in una selva che, alla stregua del Lancillotto e Ginevra del maestro transalpino, diventa arena per la collisione dei desideri e dei comportamenti. Il nodo di Miséricorde è perciò l’incrocio tra l’indeterminatezza del fare desiderante, non soltanto di Jérémie, e la determinatezza storica, sedimentata, del linguaggio cinematografico che impiega. In questo caso, il desiderio – inspiegato perché inspiegabile – non demolisce il come dominante né lo intensifica fino all’eccesso; piuttosto, lo abita producendo scarti anche minimi rispetto alle aspettative usuali e, così facendo, ne rivela le impalcature ineluttabilmente parziali. Detto altrimenti: ne mostra i limiti linguistici dinanzi a una spinta che non si lascia esaurire dai binari di un modo di rappresentazione incapace, com’è ovvio, di rendere giustizia a tutte le esperienze possibili. Tempo fa, Laura Berrie Amponsah, performer transgender e razzializzata, raccontava di come fosse strutturalmente impossibile tradurre la propria esperienza autobiografica entro un quadro drammaturgico “aristotelico”, occidentale: le micro-aggressioni subite di continuo non le permettevano di isolare una questione da affrontare, appunto, nel corso di una quête. E il discorso, necessariamente intersezionale, vale anche davanti al desiderio accostato in maniera queer. L‘uomo nel bosco prova a dar voce (e immagine) a un desiderio di questa natura, non-individuale, non-binario, non-psicologico, e lo fa soprattutto nei frangenti in cui accoglie il massimamente Altro all’interno del massimamente familiare. In fin dei conti, è quando l’inconsueto assume il volto del consueto che si ridisegnano i confini.
Mattia Gritti
in copertina: un’immagine tratta da L’uomo nel bosco, di Alan Guiraudie
L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025