Classe 1980, attore e regista argentino, Lisandro Rodríguez è tra i nomi emergenti della nuova scena sudamericana, autore di un teatro radicale e profondamente anticonvenzionale. A Zona K, nell’ambito del festival Presente Indicativo: per Giorgio Strehler (paesaggi teatrali) realizzato dal Piccolo Teatro di Milano ha presentato Extremófilo, oltre ad avere condotto una masterclass, una lezione/spettacolo di tango, un live set. Lo spettacolo, tratto da una pièce di Alexandra Badea, è un racconto a tre voci – il capo di gabinetto di un ministero, una biologa marina, un soldato israeliano – agito sulla sfondo di conflitti pubblici e privati. Harriet Carnevale, Sara Errante e Leonardo Ravioli, tre dei partecipanti all’osservatorio critico che Stratagemmi realizza a margine del festival, hanno incontrato Rodríguez in occasione del debutto dello spettacolo.

In Extremófilo, il testo di Alexandra Badea da te diretto, la ricerca della compattezza drammaturgica sembra essere relegata in secondo piano rispetto alla preminenza data alla pluralità delle voci. Da dove nasce questa esigenza?
La drammaturgia di un’opera non si esaurisce nel testo scritto, ma si esprime anche in tutti quegli elementi che vanno a comporre lo spettacolo dal vivo. In questo senso cerco di lavorare nei termini di una semplificazione, dalla quale possa emergere una molteplicità di prospettive; la complessità dello spettacolo sta invece nell’incontro tra spettatore e attori. Ciascuno di noi porta in sé una drammaturgia, la pluralità risiede proprio in questo dialogo tra informazioni diverse. E per me il lavoro del teatro sta nel mettere tutte queste drammaturgie in tensione fra loro. Riguardo a Extremófilo, siamo davanti a un testo franco-rumeno, trasposto e realizzato in Argentina, presentato sottotitolato in italiano. La complessità è già presente, il mio ruolo si realizza semplicemente nell’ordinare questa molteplicità di livelli.

foto: Lisandro Rodríguez

Ci sono stati particolari momenti mentre leggevi Extrêmophile di Alexandra Badea in cui ti sei ritrovato per tematiche e modalità narrative? Dove invece hai sentito la necessità di allontanarti da esso?
Non sono particolarmente meticoloso quando analizzo un testo. Lo prendo come punto di partenza per la mia ispirazione. Il testo è come uno dei tanti ingredienti per fare una torta: è una materia prima imprescindibile, ma da sola non è sufficiente. In molti casi, il sapore del testo è coperto da altri ingredienti, come lo spazio, o il modo in cui questo è portato in scena dagli attori e dalle attrici.

Guardando al tuo percorso artistico, ci si rende conto di come per te sia irrinunciabile riferirti a una realtà politica che vede sullo sfondo l’incombere di figure legate alla guerra e al protrarsi delle violenze. Fino a che punto ritieni che la centralità della guerra, evidente anche in Extremófilo, sia frutto di una forma di infezione dell’immaginario collettivo? O sarebbe invece da intendere come il risultato di una diversa esigenza, quella di riscoprire l’umanità dei tuoi personaggi?
L’opera non prende una posizione specifica, come invece farebbe un personaggio, ma accoglie una pluralità di voci che si incontrano lungo lo spettacolo, capaci di costruire, togliere, persino contraddire. E il mio interesse sta in quella contraddizione. Un personaggio della pièce a un certo punto dice «Tutti noi facciamo la guerra». Ciascuno contribuisce alla guerra, non è appannaggio esclusivo di chi guida un drone o fa il soldato. Tutti noi sviluppiamo alcune micro-guerre nel proprio quotidiano. È questo aspetto che mi interessa.

foto: Lisandro Rodríguez

Il teatro si presta a essere una creatura “estremofila”, che ha dovuto reinventarsi in piena pandemia per poter sopravvivere. Quale credi che sia nel mondo di oggi la sua utilità? Sopravviverà il teatro?
Finché il mondo andrà così male, il teatro continuerà a esistere. Magari tutto andasse bene e non servisse il teatro! Le problematiche a cui siamo stati esposti durante la pandemia non sono certo una novità: ci sono sempre stati rischi che hanno messo in pericolo l’umanità, a seconda di come e dove viviamo. Non saprei dire quanto il teatro serva nel concreto, ma di sicuro troviamo in esso un supporto prezioso per affrontare queste difficoltà. Troviamo un luogo dove riconoscerci politicamente, socialmente. Troviamo il confronto con l’altro. E in teatro l’incontro è un evento irripetibile, tale da non poter essere riprodotto altrove. Già nelle sue condizioni fondanti lo spettatore deve recarsi a teatro, deve spostarsi da un luogo a un altro per mettere in discussione la realtà. Se questa non fosse una nostra prerogativa, il teatro non avrebbe più motivo di sopravvivere. Quando dico «magari non esistesse il teatro» è perché sarebbe un segnale del fatto che il mondo funziona: l’arte in generale perderebbe ogni utilità.

Sei conosciuto per aver avviato nel tuo teatro un processo mirato a decostruire le convenzioni sceniche. In virtù di ciò, tenendo conto della forte sperimentazione a cui è oggi sottoposto, che ruolo ritieni rivesta in scena l’attore oggi?
La rottura dalle convenzioni è sicuramente qualcosa che mi affascina, ma non la definirei come la caratteristica principale del mio lavoro. Forse più che rompere le convenzioni cerco di entrare in dialogo con esse, riflettendo su come poter partire da queste per trovare nuove strade. Il teatro è un luogo che necessita di determinate convenzioni per poter funzionare, e tra di esse quella che più mi interessa è la relazione tra performance e pubblico, rinnovata e ciò nonostante identica a sé stessa tanto nel teatro tradizionale quanto nelle sue forme più sperimentali. Grazie al personaggio, l’attore entra a far parte di questo vincolo, ponendosi sullo stesso livello dello spettatore, con gli stessi dubbi e le medesime fragilità, situandosi in un punto liminale della messinscena, in una posizione di dialogo fra le parti.

foto: Lisandro Rodríguez

Cos’è per te il presente?
Credo che sia qualcosa a cui posso solamente aspirare. Vivere il presente è estremamente difficile. Forse possiamo ritrovarlo per un po’ nel teatro, ma non sempre succede. Il teatro invita alla pluralità e ogni sua minima espressione può abbracciare il tempo in molteplici forme, tante quanti sono gli artisti. Direi piuttosto che ci riunisce al presente solo a tratti, per brevi istanti. È in quei momenti che ci rendiamo conto di quanto il presente sia un anelito per tutti noi.

Harriet CarnevaleSara Errante Leonardo Ravioli


foto di copertina: Nora Lenzano