di e con Mimmo Borrelli
liberamente tratto da La madre: ’I figlie so’ piezze ’i sfaccimma
visto al Piccolo Teatro di Milano_ 5-9 novembre 2014

È sempre un bel segnale vedere programmato nella stagione di un teatro stabile un giovane drammaturgo (a trentacinque anni, in questa Italia, si è giovanissimi). Quando poi si tratta di una voce di talento, come è Mimmo Borrelli, non resta che riconoscere al Piccolo Teatro l’onore di un’ottima scelta. Malacrescita – in scena al Teatro Studio fino alla scorsa domenica – ha poi una storia particolarmente accidentata: nasce dalle ceneri del bellissimo La madre, uno spettacolo con sei attori e una elaborata scenografia, per trasformarsi poi in un agile monologo capace di sopravvivere ai costi di produzione e di trasporto.

Il punto di partenza di Malacrescita è Medea, figura dolente e sanguinaria adatta all’humus in cui germina il teatro di Borrelli: il terrigno dialetto della zona flegrea e i racconti crudi della gente di quei campi, tramandati di bocca in bocca e raccolti dal drammaturgo come materia prima dei suoi testi. Vicende di sangue, di vino, di morte. Vicende non meno conturbanti di quelle raccontate dal teatro greco. Nasce così Maria Sibilla, diventata madre in seguito all’abuso di un Giasone camorrista chiamato Santokanne: una Medea così infelice da non riuscire nemmeno a perpetrare l’omicidio cui è destinata. Alla potenza dell’atto tragico si sostituisce, in Malacrescita, uno stillicidio di violenza, protratto giorno dopo giorno: Maria Sibilla allatta i suoi figli a vino e li rende così dementi, inabili a vivere, inadatti a rappresentare la discendenza di Giasone.

Sono proprio i due snaturati eredi a raccontare al pubblico la vicenda, in una litania rituale che prende forma sulla tomba dei genitori, illuminata appena dalla luce delle candele: uno è Mimmo Borrelli (Pascale), anche straordinario interprete del suo spettacolo, l’altro Antonio La Ragione (Totore), musicista che contribuisce al racconto con una drammaturgia musicale composta ad hoc, in attento ascolto del lavoro dell’attore. Pascale è chiamato a rievocare, contro la sua stessa volontà, i protagonisti della dolorosa vicenda famigliare: con uno scialle appoggiato al petto diviene così Maria Sibilla, (“Mamma senza mammelle /Mamma Madre-Santa / cu ’a panza vacante / Mamma ’mbriaca ’i chiante / c’ ’u llatte mancante”), indugia nel raccontare la gravidanza non voluta e le trasformazioni del corpo, si sofferma sul nascere dell’odio verso i figli. Ancora più dolorosa la rappresentazione del padre violento e brutale, denominato fin dal sottotitolo della pièce per il suo ruolo solo biologico nel concepimento, “sfaccimma” (sperma) senza umanità né affetto: “papà no, papà no, Totore”, prega inutilmente Pascale, quasi potesse ricevere dal fratello la grazia da quell’ennesima estenuante rievocazione.

La lingua di Borrelli non risparmia nulla, sembra scavare dentro i corpi sofferenti dei suoi personaggi per portarne a galla tutta la sporcizia, le brutture, i miasmi; ma è da quella volgarità ostentata e brutale che nascono, quasi per catarsi, inaspettate altezze liriche. Il dialetto arcano e impenetrabile mette duramente alla prova gli spettatori, soprattutto quelli ignari degli elementi fondamentali della vicenda: ma se si è disposti a rinunciare alla comprensione limpida di ogni brano e di ogni parola, e se ci si lascia semplicemente guidare dalla musicalità arcaica del dialetto di Borrelli, si scoprirà di essere di fronte a una delle scritture più interessanti della nostra drammaturgia.

Maddalena Giovannelli