di Riccardo Calabrò
regia di Alice Lutrario
visto alla Scuola Civica Paolo Grassi_03-06 giugno 2013
Mamiù è un nome. E il nome è un legame: un cordone ombelicale che si spezza, ma non si cicatrizza. Ed è con quel nomignolo, Mamiù, che Tommasino chiama la mamma, prima e dopo la sua morte. E il suo richiamo è il grido disperato ma coraggioso di un bambino di nove anni.
Scritta dal giovanissimo drammaturgo Riccardo Calabrò, diplomando alla Paolo Grassi, la storia di Tommasino è un viaggio esperienziale dentro il mondo dei grandi. Il protagonista, ben interpretato dell’esile Valentina Malcotti, con la perdita della mamma perde anche il filo che lo teneva ancorato alla realtà, che gliene dava una chiave di lettura, e precipita in un mondo crudele e onirico in cui ogni cosa può ferirlo. Nell’eroica ricerca della voce di Mamiù, che gli pare di riconoscere in una segreteria telefonica, incontra gentili aiutanti e bizzarri antagonisti, tutti spiazzati dalla tenacia di Tommasino, dalla fiducia nelle possibilità di ricucire i lembi strappati della propria vita. Solo un personaggio riesce ad attivare con il giovane protagonista una connessione profonda, arrivando dove né il padre, né la sorella, né il fidanzato di lei sono stati in grado di accedere. È Fosca dall’Ombra (la bravissima Sara Bellodi), la porno-attrice nella cui voce pare risuonare quella di Mamiù, e che attraverso il velo di nebbia e smarrimento della droga e di un’esistenza sospesa sul vuoto, si rivela capace della più lucida comprensione. È lei infatti a intuire la verità che nessuno – nemmeno lo spettatore forse – vorrebbe sapere, e cioè che la minaccia più grande per Tommasino non viene dalla realtà esterna, da cui tutti lo vogliono proteggere, ma dall’interno della sua stessa famiglia.
Alice Lutrario, la regista che fa di Mamiù il saggio finale del proprio percorso alla Paolo Grassi, riesce a rendere con abilità la delicatezza di una storia, in bilico tra realismo e potenza onirica, che forse avrebbe richiesto spazi più ampi di quelli a disposizione per il debutto per dispiegarsi appieno.
Anche grazie alla duttile abilità degli attori che cambiano ruolo di continuo (completano il cast Vincenzo Occhionero e Michele Radice), ogni personaggio, anche il più marginale, fa intravedere piccoli squarci della propria vita, e lascia allo spettatore il desiderio di saperne di più. Ma a filtrare il tutto è l’immaginazione fresca di Tommasino, a cui la regia dà spazio nei cambi a vista tra una scena e l’altra. Tommasino danza (letteralmente) con i suoi fantasmi, detta fino in fondo le regole del gioco.
La scenografia, essenziale, ruota attorno al letto della camera di Mamiù, la camera dell’amore, la camera dei ricordi, il nido in cui le minacce del mondo non dovrebbero penetrare e dove invece con più violenza si manifestano. Ma il fulcro della storia non è l’infanzia tradita, è lo sguardo di chi fa esperienza del mondo per la prima volta. Tommasino confonde la voce del piacere con quella del dolore, non sa distinguere buoni o cattivi, guarda gli estranei con un pizzico di familiarità e i familiari con qualche diffidenza, e rimette in discussione la nostra – presunta o presuntuosa – capacità di giudizio.
Sara Meneghetti
Questo articolo è stato elaborato nel contesto del corso di critica teatrale “Critici in erba”, organizzato dalla Scuola Civica d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.