Sono «bozze sulla morte» quelle che Sergio Blanco mette in scena al LAC di Lugano: non una trama costruita, non altri personaggi al di fuori di se stesso. Come fossero trenta pagine di un diario, scritto nel corso degli anni e con l’accumularsi di letture ed esperienze, le trenta sezioni del monologo in spagnolo compongono una filosofica «conferenza autofinzionale», secondo la definizione dello stesso drammaturgo franco-uruguaiano. Il tutto accompagnato dalle fotografie di Matilde Campodónico, fotografa uruguaiana nota per i suoi scatti documentari della vita di Montevideo; scatti che qui accompagnano e arricchiscono le parole del drammaturgo. La scena è molto semplice: davanti allo schermo con le immagini, Sergio attende il pubblico in abiti casual, seduto a una scrivania con pochi oggetti.
E anche se alcuni elementi narrativi ritornano ciclicamente, Memento mori non ha una vera e propria trama, ma un grande tema guida, già indicato nel titolo: è la riflessione sulla morte, attorno a cui Blanco costruisce la «conferenza», come già aveva fatto con Las Flores del Mal, o la celebración de la violencia (2017). Brani letti, morti note di noti autori, fino ai lutti vissuti in prima persona dello stesso regista: con questi fatti prende forma la narrazione autofinzionale, che lega insieme storia personale e storia collettiva per creare un racconto in cui non si distingue più reale e fiction. «Parlo della mia lacrima per raccontare il diluvio», afferma l’autore in scena. Accanto agli aneddoti, Blanco si serve dell’arte come strumento primario di indagine: sono tante, infatti, le citazioni e i richiami letterari che utilizza come altrettanti argomenti del discorso, mettendoli sullo stesso piano di verità delle sue esperienze personali.
Sorprendente è l’abilità del drammaturgo nel creare un’atmosfera serena, anche se il tema è potenzialmente opprimente. I trenta episodi sono narrati infatti con un tocco leggero: in alcuni momenti il pubblico sorride o ride. Sembra essere proprio questo il perno di Memento mori: puntando a una sorta di seduzione del pubblico, Blanco rivendica l’esistenza di un’«erotica della morte», vuole mostrare cioè le «possibilità di bellezza» che essa presenta, contro la comune percezione negativa. Si pone così un drammatico interrogativo implicito: che visione abbiamo oggi della morte? Ne siamo solo inorriditi? Le rispettose risate del pubblico rispondono con una prima, essenziale prova a favore della pretesa «bellezza» dell’oscura signora.
È poi molto intelligente l’uso delle musiche: quella di Puccini, espediente a sostegno della narrazione che commuove il pubblico, sottolinea e rende ancor più drammatico il racconto della morte di un amico; Take Me to Church, hit del 2014 del cantautore Hozier, non accompagna tanto il discorso ma lo produce, viene usata con intento drammaturgico, dà una prospettiva ulteriore sul nesso amore-morte nelle parole finali di Blanco. L’accostamento è ben riuscito: nonostante la nota ironica e pop suggerita dalla canzone, non si percepisce il contrasto con la serietà e la profondità della riflessione. Il discorso del drammaturgo sembra dunque aver raggiunto il suo intento: avvicinare morte e bellezza in un unico discorso. Il pubblico se ne accorge e lo premia scogliendosi in un immediato applauso.
Ma ciò che Memento mori propone allo spettatore non è un discorso moraleggiante e ingannevole a sostegno di un vago e idilliaco morire: «la morte non sempre è bella», dice anche Sergio mentre commenta dei cadaveri di bambini abbandonati per strada. Non nasconde il dolore e il mistero che accompagnano il fatidico evento: anzi è lodevole l’equilibrio che Blanco mantiene, poiché, raccontando morti tanto “belle” quanto “orride”, nel risultato finale nelle une non si dimenticano le altre, e viceversa. «Memento mori» è, infine, un monito per non dimenticare la caducità propria della nostra natura — «ricordati che devi morire» —, ma anche un invito a «imparare a morire» — cioè a vivere, avendo accettato e accolto la presenza della morte: per Sergio Blanco abbiamo solo due certezze: pulvis et umbra sumus, ma sempre e comunque «polvere che ha amato».
Marta Pizzagalli
Memento mori o la celebración de la muerte
testo, regia e performance: Sergio Blanco
disegno audiovisuale: Philippe Koscheleff
fotografie: Matilde Campodónico
produzione e distribuzione: Matilde López Espasandín
visto al LAC di Lugano in occasione del FIT Festival 2020_9 ottobre 2020
Contributo pubblicato nell’ambito del progetto: