di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
da le Serve di Jean Genet
visto nell’ambito di Stanze_il 27 marzo 2017
Era il 1985 quando Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa si presentarono al grande pubblico con un adattamento delle Serve di Jean Genet. Oggi, dopo una lunga carriera che li ha resi una delle compagnie più longeve del panorama teatrale italiano, la compagnia torinese ripercorre i primi passi, riproponendo la propria messa in scena d’esordio.
Inevitabile la domanda: cosa spinge una compagnia a riprendere uno spettacolo teatrale a distanza di trentadue anni? Marco Isidori, fondatore e regista dei Marcido, dichiara che “vogliamo continuare a scommettere sulla ‘tenuta’ storica del teatro, poiché crediamo fortemente nelle sorti dello spettacolo dal vivo e nella possibilità di trasmettere alle generazioni che s’affacciano, quella specifica qualità di ‘presenza dimostrante’ che nessun’altra forma di intrattenimento spettacolare può possedere”. È così che Memoria dello studio per Le Serve (regia di Marco Isidori, scena e i costumi di Daniela Dal Cin) torna a Milano, questa volta ospite della rassegna di Stanze – esperienze di teatro d’appartamento, curato da Alberica Archinto e Rossella Tansini, all’interno dello spazio pluridisciplinare de La Corte dei Miracoli di via Mortara 4, zona Navigli.
In scena due serve sorelle, Solange e Claire – interpretate rispettivamente da Maria Luisa Abate e Paolo Orrico – odiano visceralmente la propria padrona e tutte le sere, quando lei è fuori casa, inscenano il suo assassinio.
La drammaturgia riprende quindi il celebre testo di Genet, ispirato a un fatto di cronaca nera, ma limitandosi al nucleo centrale del dramma. La padrona, a differenza di quel che accade nell’opera originale, sparisce di scena per vivere unicamente nelle parole, nei gesti e nelle imitazioni di Solange che ne diventa una sorta di doppio-evocante. Il tema del doppio si sviluppa anche all’interno della coppia delle protagoniste, che diventano facce diverse e complementari di un’unica personalità: su un piccolo palco rotondo, Solange si erge ritta, bella statuina sul suo piedistallo, e Claire ai suoi piedi si trasforma nel suo alter ego che si muove e le striscia attorno. Le parla, le sussurra all’orecchio e tesse attorno a lei una trama fatta di parole e di fili di perle che estrae dalle tasche del costume della ‘collega’, fissandola al terreno, intrappolandola nella sua maschera che è allo stesso tempo anche la propria.
È lo stesso Orrico dunque a costruire la scenografia della scena, innestandola sul corpo dell’Abate: Claire trasforma Solange in una Madonna con una raggiera di mollette da bucato in testa, quasi una corona di spine. Questa immagine, ingenuamente naïf e al tempo stesso blasfema, invade la scena vuota: solo una nuda lampadina cade vicino al volto di Solange e lo illumina con discrezione, amplificandone i mutamenti d’animo, mentre sulla parete di fondo è appeso un grande dipinto, un fuoco che arde perenne: una rabbia che non si estingue.
Il condensato elaborato dai Marcido amplifica lo spaesamento dello spettatore ed è ancora il tema del doppio ad emergere con potenza, grazie alla bravura dell’Abate, capace di incarnare con maestria l’ambiguità del testo di Genet. La sua voce, a volta carica di ferocia a volte dolce, quasi melensa di poesia, diventa specchio del desiderio represso di Solange e sostituisce la partitura gestuale che, pur rimanendo minima, risulta emotivamente densa. La parola di Genet diventa così tutt’uno con la recitazione e con la scena: il corpo si fa macchina teatrale, significato e significante si fondono.
L’operazione dei Marcido è riuscita: Memoria dello studio per Le Serve non è solo la dimostrazione di un percorso caparbio e continuo di una compagnia storica e sempre attuale, ma esempio di come uno spettacolo teatrale possa eludere le mode passeggere e farsi elaborazione di un pensiero che travalica il tempo.
Giulia Alonzo