Intervista a Valeria Battaini, Francesca Mainetti e Roberta Moneta fondatrici dell’Associazione Teatro19 e ideatrici di Metamorfosi Festival.


Diversità, ascolto, condivisione: questi i pilastri fondanti dell’Associazione Teatro19 che da quindici anni lavora sul territorio e con il territorio bresciano per un teatro d’arte sociale. La direzione artistica è condivisa dalle tre fondatrici, Valeria Battaini, Francesca Mainetti e Roberta Moneta che durante il Festival Metamorfosi, quest’anno a Brescia dal 23 marzo al 4 aprile, si dividono ruoli e lavoro, come per ogni altro progetto dell’Associazione. La loro vocazione per un teatro in relazione alle trasformazioni urbane e ai cittadini si mostra fin dal 2011 con “Barfly – il teatro fuori luogo”, ora parte del progetto di riqualificazione urbana “Oltre la strada”, dedicato all’inclusione culturale di zone fragili della prima periferia bresciana. Se si ascoltano i problemi del territorio si entra in contatto con chi lo abita ed è da questo che, grazie anche all’incontro tra Francesca Mainetti e Alessandro Garzella, fondatore di Animali Celesti – realtà che si occupa di unire artisti, educatori, utenti psichiatrici e cittadini per un Teatro d’Arte Civile – nasce il Festival Metamorfosi. In collaborazione con l’Unità Operativa 23 della ASST Spedali Civili di Brescia il festival, espressione pubblica del progetto, cerca di connettere realtà, luoghi e pubblici diversi nella convinzione che la salute mentale sia un tema politico relativo a ognuno di noi.

Abbiamo incontrato Valeria Battaini, Francesca Mainetti e Roberta Moneta per farci raccontare il loro lavoro, sia dal punto di vista artistico che sociale, e il Festival Metamorfosi a ridosso della V edizione.

Cosa vi ha spinto a lavorare nel mondo della salute mentale in qualità di individui e di Associazione Culturale?

Francesca Mainetti: Mi hanno sempre interessato e affascinato le tematiche connesse alla salute mentale. Nel 2012 avevo iniziato a conoscere l’Unità Operativa di Psichiatria 23 e lo psichiatra di riferimento, Fabio Lucchi, mi propose di fare una lettura teatrale sulla testimonianza di Patricia Deegan, autrice del testo che poi avrei interpretato. Lei era stata ricoverata per un disturbo psicotico a 18 anni e, dopo una laurea in psicologia, è diventata una delle più note ricercatrici sul tema della recovery. Il concetto di recovery è impostato sulla costruzione di nuove modalità di intervento che promuovano percorsi di inclusione sociale e cura dove l’individuo viene responsabilizzato, deve contribuire propositivamente alla terapia e, in un secondo momento, alla vita della comunità. La lettura ebbe un impatto estremamente positivo, quasi rivoluzionario sia sugli utenti dei centri di salute mentale, sia sugli operatori, e ancora oggi viene usata nei corsi di formazione. L’impatto del testo, riletto teatralmente, era più forte, emotivo e, al contempo, le parole non riguardavano solo le persone malate o chi con loro lavora, ma ogni individuo. Io stessa mi resi conto di alcuni miei punti di fragilità. Lo scritto della Deegan e la sua visione di recovery portavano una nuova idea nel mondo della psichiatria: ogni persona, diversa dalle altre, può trovare il suo modo di reagire a ciò che accade nella vita. Non dobbiamo essere tutti uguali, perché non lo siamo. Se un utente psichiatrico sente delle voci, si può relazionare con quelle, può trovare il modo di stare nel mondo a modo suo e questo si può davvero applicare a tutte le persone. Da quella lettura io e Fabio Lucchi ci rendemmo conto che quella visione andava benissimo per il teatro e per la psichiatria: l’uno e l’altra sono in continua evoluzione e percepivamo entrambi una necessità di cambiamento. Mi sono accorta fin dall’inizio che lavorare con non professionisti e con utenti psichiatrici serviva innanzitutto a me per comprendere meglio il mio essere persona, artista e cittadina. Una visione composita del nostro lavoro e, contemporaneamente, l’idea che la diversità sia necessaria, ci hanno portato a sviluppare i progetti a cui stiamo lavorando: la fratellanza tra diversità che si avvalorano l’un l’altra è fondamentale, come le differenze tra teatro e psichiatria, tra professionisti e dilettanti, tra forme d’arte le quali, però, il teatro accoglie tutte dentro di sé.

Francesca Mainetti

Come avete costruito il rapporto con il territorio?

Valeria Battaini: Inizialmente il progetto riguardava solo la periferia, San Polo in particolare. Nel corso del tempo abbiamo instaurato collaborazioni sempre più forti: da Residenza I.Dra, al C.T.B., fondamentale per lo spazio dello Stabile bresciano, e da quest’anno anche Brescia Musei. Fortunatamente non abbiamo mai sofferto mancanza di pubblico e ora, proprio grazie a queste collaborazioni, intercettiamo anche i loro spettatori, cercando di realizzare insieme la comunicazione.

E in che modo è nato il Festival Metamorfosi ?

Roberta Moneta: Fin dall’inizio abbiamo collaborato con l’Amministrazione Pubblica, portando loro questa visione di recovery che avevamo conosciuto e che trovavamo molto interessante. Siamo convinte che sia necessaria per cambiare le persone, alcuni paradigmi della medicina, il teatro stesso e anche per affrontare i problemi della città in modo diverso. Nel 2015, alla prima edizione del Festival, non avevamo alcun finanziamento pubblico – ora il Comune di Brescia ci dà un appoggio – ma riuscimmo comunque ad invitare Alessandro Garzella, da sempre attento a progetti d’impegno civile oltreché artistico, la Compagnia Abbondanza/Bertoni, e ad ospitare un concerto di Nada. C’è sempre stato il desiderio di unire diverse tipologie di espressione artistica: non solo teatro, ma anche musica, danza, letture, cinema per intercettare più pubblici possibili, coinvolgerli e renderli partecipi.

A questi spettatori eterogenei proponete un nuovo modo di conoscere il disagio mentale, le periferie, le diverse forme d’arte…

F.M.: Oltre agli spettatori più “tradizionali”, cerchiamo di lavorare su quel pubblico che non esiste, il pubblico degli utenti della Salute Mentale e dei loro familiari. In accordo con Fabio Lucchi, nostro psichiatra di riferimento, pensiamo che la cultura, intesa in senso ampio, sia una cura: il Social Prescribing in gergo medico. Agli utenti vengono prescritte attività sociali e culturali, dalla visita a un museo a uno spettacolo di teatro, passando per una corsa all’aria aperta. Cerchiamo, come Associazione, di coinvolgere questo pubblico il più possibile ad esempio programmando gli spettacoli in modo tale che il lavoro esito di un laboratorio con gli utenti di psichiatria avvenga lo stesso giorno di una replica, così possono parteciparvi. Da ricordare è il fatto che alcune di queste persone non escono di casa da molto tempo e riuscire a portarle a teatro, a coinvolgerle in esperienze nuove è meraviglioso.

Valeria Battaini

Come avete lavorato negli anni con il pubblico?

R.M.: Il nostro pubblico negli anni si è dimostrato sempre fedele. Lavorando nelle periferie, da Via Milano a San Polo alla Torre Cimabue, spesso lo coglievamo di sorpresa: facevamo spettacoli, incontri, letture teatrali nei bar, nei parchi. Loro hanno iniziato a seguirci e in alcune serate organizzate al Teatro Sociale di Brescia: abbiamo scoperto che molti non ci erano mai stati! È appagante riuscire a intercettare spettatori altrimenti invisibili, dagli utenti psichiatrici agli immigrati che vivono nelle periferie o in zone come via Milano in cui spesso si creano dei vuoti.

Oltre al Festival avete creato anche un gruppo teatrale, la Compagnia Metamorfosi e un laboratorio permanente con lo stesso nome. Quali bisogni vi hanno spinto ad attivare questi progetti?

F.M.: Noi lavoriamo con uno dei servizi territoriali di psichiatria, l’Unità Operativa 23 degli Spedali Civili di Brescia il cui centro diurno operativo è il CPS in via Romiglia. È stato Fabio Lucchi, direttore di questo servizio, che nel 2011 mi ha coinvolto per il laboratorio. Inizialmente durava due ore, il venerdì. Si usavano tecniche teatrali come strumento di riabilitazione e il saggio finale sembrava necessario: io non ero d’accordo e nemmeno Fabio Lucchi, così, oltre al laboratorio Base Creativa, è nato Metamorfosi. Lì abbiamo unito riabilitazione e la necessità di alcuni artisti a relazionarsi con persone con una storia di malattia mentale, creando un contagio virtuoso che aiuta entrambe le parti a gestire meglio qualcosa in loro che non gli permette di vivere “normalmente”. Spesso quando si lavora in questo tipo di laboratori legati ad aspetti molto complessi della vita delle persone e della comunità ci sono dei tabù: gli operatori ad esempio mettono dei veti su certi argomenti. Nel nostro laboratorio questi veti non esistono: chi partecipa si auto-seleziona proprio perché sa che con noi si può parlare di sessualità, violenza, tristezza, delle passioni e degli istinti umani perché è teatro e il teatro si fonda su quello che è l’essere umano. Al contempo sanno che non è per noi necessario produrre un saggio o uno spettacolo alla fine del lavoro, ci diamo tempo e lo diamo anche a loro.

Come lavorate con gli utenti di Psichiatria, gli attori professionisti, gli operatori?

F.M.: Durante i laboratori tutti partecipanti portano scritti personali, oggetti, idee per i training o per l’eventuale messa in scena. Ci si basa sulla parità dei ruoli e sulla reciprocità, oltre che sull’auto-selezione di cui parlavo. Gli artisti si trovano a lavorare sul perfezionamento della loro professionalità e soprattutto sulla loro umanità; gli utenti invece non solo su un mestiere o una possibile produzione, ma soprattutto su loro stessi.
Noi vogliamo fare teatro sociale d’arte – come amiamo definirlo – e per farlo ritengo sia necessario trovare il training specifico per il gruppo con cui si sta lavorando. Io sono attrice e formatrice professionista e con la Compagnia Metamorfosi ho voluto impostare il lavoro sulla ricerca di ciò che fa bene a un individuo specifico, insieme a lui. Far crescere la propria consapevolezza è il primo passo, oltre a essere il principio di base della recovery ed è per questo che nel training cerchiamo insieme, tra professionisti e non professionisti, di creare qualcosa che sia utile a quel gruppo di riferimento, composto da quelle specifiche persone. Nel lavoro con la nostra Compagnia inoltre i professionisti sono presenti sì per insegnare un sapere tecnico, ma al contempo per imparare. Siamo un gruppo di ricerca e quindi cerchiamo! Insieme quest’anno abbiamo creato alcuni esercizi nuovi partendo da tecniche dell’attore, ad esempio il lavorare da soli per una decina di minuti – esercizio per un attore piuttosto banale, ma per un utente una tecnica assolutamente innovativa. Ascoltarsi è il primo passo per prendersi cura di sé e per chi soffre di apatia o depressione è fondamentale. Un altro problema degli utenti è spesso legato allo sguardo: lo sguardo è necessario per la relazione con le persone, come è uno strumento basilare per l’attore. Chi ha un certo tipo di disturbi, ad esempio la schizofrenia, non riesce a mettere a fuoco lo sguardo. Nel training che abbiamo creato, una persona deve guardare un oggetto, gli altri del gruppo capire cosa sta guardando fissando i suoi occhi, successivamente toccare quell’oggetto finché anche la prima persona non lo tocca. Infine è quest’ultima a spostare lo sguardo negli occhi di un altro, cedendogli così il ruolo. È un modo per attivarli: il teatro è azione e relazione e ognuno ha nel laboratorio la libertà di trovare la propria strategia, seppur seguendo alcune indicazioni professionali. Sono esercizi d’ascolto e incontro. Gli utenti formatisi all’interno del “laboratorio Metamorfosi”, infine, possono diventare docenti, affiancati da me, nel laboratorio “Base Creativa”.

Roberta Moneta

E per quanto riguarda le produzioni del laboratorio? Quest’anno presenterete L’ombra di Jones

F.M.: Al festival presenteremo sì L’ombra di Jones, spettacolo scaturito in particolare dall’esperienza di due utenti psichiatrici, fratelli e attori non professionisti, di quasi settant’anni, che ritengono il teatro un mezzo importante per affrontare la vita. Uno dei due ha sperimentato il manicomio quando ancora era aperto a Brescia e il lavoro è nato dalla sua visione. Ci raccontava che la sua malattia è un’ombra identica a lui, che si comporta però in modo diverso, un’ombra pericolosa. Abbiamo voluto provare a crearci uno spettacolo e in circa tre anni siamo riusciti a costruirlo. Per noi non è necessario produrre spettacoli, procediamo seguendo i tempi degli utenti e allo stesso tempo ciò che troviamo interessante. Questo è un lavoro davvero particolare, artisticamente affascinante. Le produzioni, il lavoro del festival e di noi, come Teatro19 in generale, sono frutto di ascolto. Un ascolto che passa dalla relazione reale con il territorio, con le altre associazioni, con bisogni e richieste che partono dal basso: la Compagnia Metamorfosi, il festival e i nostri progetti come Associazione hanno radici forti, cercano di non essere autoreferenziali e di lavorare, cosa per me necessaria, per il rinnovamento dell’arte.

A cura di Camilla Fava