Al Theatro tou Neou Kosmou di Atene, sempre attento alle sperimentazioni, è in scena fino al 15 Novembre Un uomo in fallimento del francese David Lescot (classe 1971). Particolarità dell’allestimento, l’intreccio multiculturale: il progetto (promosso dal Teatro della Grecia del Nord, Istituti di Cultura francese e italiano) è frutto della residenza artistica (2014) a Soleminis (Cagliari), presso la “Casa delle Storie”, vivace centro propulsore di cultura e di scambi. Qui nasce il collettivo Beatniks, composto da tre attori greci guidati dal romano Francesco Bonomo, interessante fisionomia di attore che si cimenta con successo anche come regista. (In questi giorni è al Teatro Massimo di Cagliari, con l’adattamento di La paura, racconto di De Roberto sulla prima guerra mondiale).

All’insegna di un’identità “liquida” che unisce l’Europa in crisi, questo Uomo in fallimento, dopo il debutto in Italia (festival di Soleminis e Reggio Calabria, in greco con sovratitoli), è approdato in terra ellenica, a Salonicco e ora ad Atene. Il testo di Lescot, del 2006, è più che mai attuale (tradotto in Italia per Titivillus e proposto al teatro i di Milano nel maggio 2011, mise en espace di Viola Graziosi). Mostra le vicende di un Uomo che, strangolato dai debiti, si affida a un agente liquidatore ed è costretto a vendere tutto. Una perdita economica, materiale, e soprattutto esistenziale: abbandonato anche dalla moglie, egli trova un ultimo appiglio in un libro, il romanzo di fantascienza Tre millimetri al giorno (The Shrinking Man) di Richard Matheson (1956), che diventa per lui una sorta di manuale etico. Come il protagonista di Matheson, che rimpicciolisce fino a misurare pochi centimetri, così l’Uomo di Lescot deve imparare a reinventarsi, per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile.

Se in un altro allestimento ateniese (Low Budget Festival 2012 e poi Skrow Theatre 2013) l’opera assumeva i tratti di una commedia nera, una parabola espressionistica sulle conseguenze negative del capitalismo, la forma scelta da Bonomo e dai Beatniks punta invece alla levità ironica, condotta con humour e gestualità comiche. L’apparato scenico, volutamente minimalista, ha per centro focale una parete, confine ottico della casa del protagonista, e proprio qui avviene il trapasso dal realismo al simbolico, fino all’esito surreale di matrice kafkiana (l’uomo rimpicciolito). Come ci ha spiegato il regista, pur adattata alle diverse esigenze spaziali dei teatri ospitanti, la scena ha però mantenuto due elementi costanti. La stilizzazione: il mobilio, fondale di una normale vita domestica (letto, poltrona, tavolo), non è fisicamente presente, bensì appare riprodotto sulla parete in ingenui disegni pop; la cancellazione: su quelle figure disegnate viene spalmata della vernice bianca, colore simbolico del vuoto, a indicare la perdita e svendita totale.

Nell’allestimento ateniese l’esito è ancora più persuasivo. Al posto della parete, una grande lavagna, e questa volta i mobili non sono disegnati, bensì scarnificati nell’astrazione delle parole corrispondenti, cioè “tavolo”, “letto” ecc. e nelle cifre del rispettivo valore. Un arredamento invisibile allo spettatore, perché ancorato a tracce effimere in gesso presto divorate dal vuoto: non dal nero della lavagna, ma ancora una volta dal bianco, colore embrionale di un inizio possibile. Un bianco che gradatamente si andrà a riempire di altri segni (proiettati), facendosi sempre più simile alla pagina scritta di un libro, come quello in cui si immerge il personaggio. Lo spettatore sorride, interagisce con i bravi attori e legge i riflessi della sua realtà. Un effetto di condivisione viene ricreato ad esempio quando, all’ingresso in sala, il pubblico viene accolto dall’agente liquidatore che distribuisce un fake-test sulla crisi (“Hai debiti, un mutuo?”, “Quanto guadagni?”, ecc.).
Si intravede però una speranza: forse il fallimento, che porta alla riduzione e a una vita “minuscola”, può anche restituire la giusta misura delle cose, e dalla privazione potrà venire infine anche la catarsi.

Gilda Tentorio