“Fare teatro non porta a ragionare troppo su se stessi, a mettersi eccessivamente in discussione?”. Dalila sta finendo il liceo artistico, ma ha già chiaro di voler fare l’attrice. Danio la ascolta, annuisce lentamente, e si concede un attimo prima di rispondere: sa di dover dare una riposta difficile. È sabato mattina, siamo all’auditorium Dialma Ruggero di La Spezia per la stagione teatrale di FuoriLuogo. Un manipolo di giovani spettatori occupa le prime file della platea, sul palco ci sono gli attori della compagnia di Danio Manfredini che ieri hanno presentato Cinema Cielo: oggi gli studenti hanno la possibilità di discutere di quello che hanno visto.

Se avete in mente certi incontri in teatro dopo le matinée con brusio ininterrotto, risatine di imbarazzo e artisti spazientiti, dimenticateli: il giovane pubblico di FuoriLuogo è evidentemente abituato a momenti come questo, qualcuno propone addirittura collegamenti con altri appuntamenti della stagione, e le due ore scorrono senza che quasi nulla turbi l’atmosfera densa di ascolto.
Solo i primi minuti ricordano il consueto dibattito post spettacolo; poi, progressivamente, il discorso si allarga e Manfredini trasforma un sabato mattina qualsiasi in un ricco seminario dedicato all’identità e al lavoro dell’attore, alla vocazione e al rapporto tra arte, teatro e vita.

“Il teatro è un atto di conoscenza dell’esistenza, che porta più vite in una. Lavorando sul personaggio si aprono molte porte su se stessi, sul proprio dolore, sulla propria memoria emotiva”, spiega Danio a Dalila: “ma l’attore deve essere altrettanto bravo a richiudere quelle porte, a ritrovare il proprio perimetro e ad affrontare la quotidianità proteggendo quello scrigno di esperienze”. La questione sollecita l’interesse di molti. C’è chi chiede come sia possibile passare rapidamente da un’identità all’altra, chi sente l’esigenza di ricostruire quale attore abbia interpretato quale personaggio: Manfredini dispensa consigli tecnici (il modo più efficace per gestire un rapido cambio di costume dietro le quinte, spiega, è farlo con lo stato d’animo del personaggio), li accosta a riflessioni di ordine filosofico (“il teatro ci aiuta a fare i conti con la molteplicità dell’io”), e suggerisce approfondimenti agli argomenti emersi (“leggete le poesie di Mariangela Gualtieri, che sa spiegare meglio di me quanto il nostro ‘io’ possa essere illusorio”).

Poi, convinto che ogni incontro per essere davvero tale debba essere reciproco, incoraggia interventi più personali dalla platea: “raccontatemi il vostro primo contatto con il teatro, cosa ha significato per voi”, chiede. La generosità dimostrata nel condividere il proprio percorso artistico spinge gli ascoltatori ad aprirsi, senza paura. “Ho cominciato a fare teatro perché mi sentivo solo, avevo bisogno di uno spazio dove trovare calore umano”, confida un ragazzo. “Il teatro purtroppo non risolve la solitudine”, risponde Danio. “Insegna a restare centrati su di sè, ma allo stesso tempo permette una forma di contatto con chi ci è accanto: in un certo senso è una solitudine condivisa”.
Quanto il teatro possa essere autentica esperienza di relazione, del resto, Manfredini l’ha dimostrato per tutta la mattina; e mentre si allontanano, pronti a tornare a casa, i ragazzi dicono un ‘grazie’ che non ha nulla di formale. Per qualcuno le parole ascoltate resteranno uno spunto di riflessione da far decantare. Per qualcun altro, forse, gli appunti presi oggi si trasformeranno in un prezioso taccuino di lavoro.

Maddalena Giovannelli