di Pina Bausch

Visto al Piccolo Teatro di Milano _ 10-13 Febbraio 2011

Milano si è fatta contagiare in pieno dalla febbre di Pina Bausch.
A fare da termometro dell’alta temperatura sono non solo i biglietti esauriti per Vollmond e le sterminate liste d’attesa, ma anche la voracità con la quale sono stati presi d’assalto gli eventi collaterali. Il cinema Gnomo –  dove era stata prevista una programmazione di film e documentari dedicati alla coreografa scomparsa quasi due anni fa –  non ha mai visto un’affluenza tanto pervasiva ed eterogenea. Ma a dare un’idea dell’entità del contagio basterebbero le scene di ordinaria follia avvenute alla biglietteria del Teatro Elfo Puccini, dove la vana speranza di riuscire a vedere “Moving with Pina”, la lezione spettacolo di Cristiana Morganti, ha suscitato in tutte le tre date previste un’ondata di isteria collettiva. All’apertura della lista d’attesa, un’ora prima dell’inizio dello spettacolo, era già pronta una fila di feroci pretendenti pronti a dare la vita per un biglietto. Temperature alte si sono registrate, naturalmente, anche al Piccolo Teatro. Non solo in ingresso, nella speranza di ottenere gli ambiti posti in piedi messi a disposizione solo un’ora prima dello spettacolo, ma anche in sala era percepibile una qualche fibrillazione, una nervosa sovreccitazione da grande evento.

Vollmond, produzione del 2006, si inscrive a pieno titolo nelle più belle creazioni dell’ultima fase artistica della Bausch. Alla vibrante staticità di certi stücke degli anni ’80, si contrappone un’esplosione di movimento, di colore, una matericità di cui l’enorme pietra presente sul palco – unico elemento immobile della scena –  è un palpabile simbolo. È il trionfare della danza e del piacere del danzare: ed è cosa non scontata per una coreografa che per lungo tempo ha lavorato in una direzione di sottrazione del movimento con lo scopo di liberare la figura del danzatore da ogni stereotipo.

Naturalmente non sono assenti gli ingredienti della Bausch di sempre: gli abbracci, le schermaglie amorose, la violenza, la tenerezza, gli irresistibili e incomprensibili dialoghi tra i personaggi. Sul palco, spiccano alcuni membri storici della compagnia. La prorompente Nazareth Panadero, che conquista il pubblico ad ogni entrata con la sua voce possente, l’italiano bizzarro e le irresistibili invettive al latte che invariabilmente straborda sul fornello quando ti giri; Julie Stanzak, che pare quasi la controfigura della coreografa con il suo corpo affusolato e quasi androgino; e, naturalmente, il veterano Dominque Mercy, ora direttore artistico Wuppertal Tanztheater.

Il pubblico ride dei piccoli e ironici frammenti creati a partire dal celebre “metodo delle domande” bauschano; trattiene il fiato alla vista delle sinuose e sensuali partiture coreografiche nelle quali le braccia delle danzatrici sembrano lunghissime ali; si emoziona per il vertiginoso crescendo creato dall’azione congiunta di acqua e ritmo sul finale. E si arriva così, quasi senza respirare, al momento degli applausi: una vera e propria ovazione nella quale si coglie la consapevolezza un tributo conferito troppo tardi, per qualcuno la sorpresa di una scoperta, per molti la coscienza dell’inarrivabilità e non ripetibilità di questo straordinario metodo compositivo.

E, loro, i danzatori del Wuppertal Tanztheater? Come hanno vissuto questo trionfo? Durante il lungo momento degli applausi sembrava di scorgere sui loro volti (ma è forse solo suggestione?) un’ombra, una sensazione di smarrimento, l’amarezza del ricevere un tributo quando ha perso parte del suo valore. Impossibile non percepire nel corpo di Dominique Mercy una qualche stanchezza, la fatica del trascinare con sé una pesante responsabilità e un’ingombrante assenza. E quando lo si vede entrare in proscenio solo, con in mano due bicchieri  –  mentre gli altri dodici danzatori stanno ballando abbracciati, a coppie – è difficile non pensare a chi fosse destinato il secondo.

Maddalena Giovannelli

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