di e con Mario Perrotta
visto all’Elfo Puccini di Milano in occasione del Premio Hystrio 2015.
Un uomo salta sul treno che lo porterà al fronte: forse lo ignora ma in quell’istante la sua identità si squarcia, scissa tra il piede dietro, ancorato alla terra, che appartiene al civile, e quello davanti, che monta in carrozza, proprietà del soldato. Il passaggio dalla civiltà alla guerra è un fermo-immagine di disappropriazione dinamica.
È pressappoco così che la vede Mario Perrotta mentre dà fuoco alle polveri del suo Milite ignoto-quindicidiciotto, spettacolo-racconto sulla prima guerra mondiale che ha debuttato sotto forma di studio-reading il settembre scorso e che viene ora proposto all’Elfo Puccini per un’unica data, in occasione dei premi Hystrio.
Seduto su alcuni sacchetti di sabbia, sineddoche scenografica del paesaggio di trincea, Perrotta presta il suo corpo alla moltitudine di voci dei coscritti che, quella guerra, l’hanno vissuta in prima persona. Soldati semplici, è bene specificarlo, uomini “non studiati” che mai hanno avvertito particolare esigenza della Patria – il cui perimetro, nelle loro menti, corrisponde più ai limiti geografici del paese d’origine che ai confini nazionali – e che vivono la chiamata alle armi con un misto di stupore per l’avventura, estraneità alle logiche militari, alienazione per le condizioni disumane a cui sono costretti. Già perché la guerra sembra destrutturare l’essere umano quasi meccanicamente: non lo interpreta più nella sua pienezza, ma nel suo essere pezzo, componente di un apparato complesso, articolato. Gli uomini non sono altro che braccia, gambe, arti pronti a cedere o a contrarsi nello sforzo bellico e le bombe, le mitragliatrici, il gelo e le baionette lo rammentano con efficacia ai soldati nelle frequenti amputazioni. È così che anche la rappresentazione della guerra messa in campo da Perrotta non può rinunciare alla frammentarietà: il punto di vista diventa intermittente, prospettiva “a bagliore”, direbbe uno dei combattenti, simile a quella provocata dagli ordigni a grappolo che illuminano il cielo con il loro scoppio e poi lasciano nuovamente spazio al buio. La narrazione non è da meno e, benché analitica, diventa particellare, talvolta ellittica, si fa procedere magmatico, dove un’esattezza limpida, quasi matematico-formulare (naso=schifo; bocca=secco; mani=coglioni) si coniuga con un linguaggio poetico ricco di sinestesie (botti metallo, respira largo, rumori di umido sotto gli stivali). L’effetto espressivo che ne consegue è notevole e, incrementato dal colore linguistico dei dialetti dei soldati (Perrotta ne interpreta con abilità quasi una decina), sembra rievocare la spietata vivacità lessicale di alcune pagine di Celine in Viaggio al termine della notte incrociata con la multiforme “vox populi” dei Malavoglia.
Insomma, quello di Perrotta è un spettacolo di narrazione che sa essere poeticamente ricercato e al contempo estremamente accessibile ad un pubblico ampio. Ma è forse in questa seconda ambizione che la performance registra qualche sbavatura. La volontà didattica che accompagna alcuni passaggi (l’enumerazione di date, di fatti, di personaggi-chiave del conflitto: da Cadorna alla personificazione del Piave) unita all’esplicitazione del pretesto narrativo (il milite ignoto non è semplice collettore simbolico delle testimonianze dei soldati, ma si rivela identità concreta, resa folle da un trauma di guerra) smorzano un poco il fascino allucinato dell’aneddotica di trincea, lasciando spazio a qualche nota retorica. A Perrotta si perdona questo e altro: la sua esposizione ha una grazia così rara, il suo carisma è tale che ci si lascia trascinare nella narrazione e, come i soldati abbracciati nel fango dei terrapieni, si diventa un unico corpo, il cui calore umano rende irrilevante il resto e permette di percepire, prospettiva curiosa, un barlume di fratellanza.
Corrado Rovida