da Eduardo Scarpetta
regia di Michele Sinisi
visto a Milano alla Sala Fontana_dal 17 al 29 gennaio 2017
Tra Scarpetta, Eduardo e Totò, senza farsi spaventare, attingendo a piene mani e ritagliandosi spazi di riflessione e metateatro. Così Michele Sinisi affronta la sfida di Miseria e nobilità, farsa di culto del teatro scarpettiano, che De Filippo trasformò in commedia e che il Principe rese, se possibile, ancora più immortale. Il testo sulla povertà e la ricchezza, sulle glorie e le disgrazie, l’amore e l’inganno, diventa per il regista e attore pugliese – originario di Ostuni e che aveva già affrontato un De Filippo con L’arte della commedia nel 2012 – l’occasione per ribadire, con verve e passione, la potenza del classico, la versatilità della tradizione, l’infinito gioco del teatro.
Sinisi, riscrivendo (insieme a Francesco M. Asselta) e dirigendo con fermezza, lavora non tanto sull’originale di fine Ottocento, quanto sulla versione cinematografica del 1954 di Mario Mattioli e su quella eduardiana, di un anno precedente. Dalla prima deriva l’episodio della lettera che Totò – cioè lo scrivano don Felice – deve scrivere per un campagnolo che parla un idioma incomprensibile. Lo ripropone in scena con un escamotage: rappresentando due altri celebri tentativi di scrittura di altrettante lettere, entrambe più o meno napoletane, quella di Totò Peppino e la malafemmina e quella di Non ci resta che piangere con Troisi e Benigni. Sinisi rievoca qui i cliché della storpiatura e delle incomprensioni, queste ultime tra uomo e uomo, tra lingua parlata e scritta, tra pensiero e azione; con tanto di intervento del regista che sfonda la quarta parete e riporta all’ordine i suoi attori distratti che non solo non sanno scrivere, ma nemmeno “pescano” dalla tradizione il modello corretto cui fare riferimento.
Della versione di Eduardo tornano invece ben riconoscibili l’impostazione, i dialoghi e la comicità aspra, qui sviluppata al massimo, quasi al limite del nonsense. Rimane quindi in secondo piano, adombrato dalla (a tratti troppa) esuberanza degli interpreti, dal perfetto ingranaggio della macchina scenica, dalla risata strappata, il tratto umano di don Felice Sciosciammocca e del suo gruppo di miseri amici, ma anche quello dei nobili dai cuori fragili e vergognosi. Quello stesso tratto che aveva trasformato il personaggio scarpettiano in un uomo moderno: fragile, appunto, e pertanto più vicino a noi.
Risulta un po’ sfilacciata, non a caso, una delle parti più commoventi della commedia: il monologo sulla miseria di Felice, finto nobile – e ubriaco – in casa di un nobile altrettanto posticcio. Scena sulla quale i critici all’epoca avevano commentato: “Eduardo ha vissuto il personaggio di Don Felice con delicata commozione, con una specie di tremore riverenziale che dava un particolare sapore alla sua magnifica interpretazione”.
Interessante l’operazione di melting pot dialettale, con il pugliese a dominare su tutto e con inserti dalle parlate del nord e del centro: un coraggioso allontanamento dalla tradizione napoletana e una bella metafora dell’umanità – il tema appartiene profondamente al testo – che tutta si stringe attorno all’aspirazione, al sogno irrealizzabile di non fare più fatica per stare al mondo. In questo arcobaleno linguistico, non sempre facile da seguire per il pubblico, che pure si lascia trascinare, brillano le interpretazioni di Gianni D’Addario e Ciro Masella, entrambi ispirati professionisti che non nascondono il piacere di diventare Felice e Pasquale. Bravo anche il “cavalier eccellenza” Stefano Braschi, vulcaniche le cinque attrici, che però rischiano di stare per troppo tempo sopra le righe.
L’ampia scena vuota evoca e suggerisce, mentre l’ingranaggio si ingarbuglia e si scioglie, con la gioia – e la miseria – del far teatro. Che il prode Sinisi non nasconde: a sé, ai suoi attori e, naturalmente, al suo pubblico.
Francesca Gambarini