Mishap! è un artefatto misterioso. Non perché sia indecifrabile: è un testo teatrale, un normalissimo testo coi personaggi che dialogano, i monologhi, le didascalie e tante altre belle convenzioni che conosciamo benissimo. Eppure, per quanto si possano rinvenire molti riferimenti alla tradizione, per quanto sia ambientato in un contesto a noi familiare e parli, in fondo, di crisi di coppia ai giorni nostri, questo testo nasconde fra le pieghe un che di alieno. C’è qualcosa di non tradotto (o intraducibile) che non ho capito, qualcosa che sembra lontanissimo, come un’incisione rupestre o una danza dimenticata. Una sensazione che traspare fra i dialoghi e che sopravvive alla struttura non banale – ma nemmeno così originale – del testo. Se la parola non suonasse così male, direi una magia oscura, che non sono in grado di stabilire se sia una costante del teatro islandese, una peculiarità artistica di quella nuvola distante dell’Europa, o una caratteristica unica del suo autore, Bjarni Jónsson. So però che questa magia si annida in Mishap! e chiede al regista che lo metterà in scena di essere preservata e portata agli spettatori. 

Ma come è costruito Mishap! – un testo del 2007 che ha debuttato nello stesso anno al Teatro Nazionale d’Islanda? L’ambientazione è una casa in ristrutturazione, un luogo, dice la concisa didascalia iniziale, connesso col mondo esterno tramite un complesso sistema di tubi. Questa breve, e unica, nota sulla scena evoca fin da subito diverse immagini enigmatiche: una casa sospesa in una rete di connessioni, un set allacciato a un’infrastruttura neurale, un dentro alimentato da tubi catodici e fibre internet opposto a un fuori che non conosciamo… La stessa didascalia iniziale ci avvisa che siamo alla vigilia di uno sciopero degli insegnanti, e nulla più. Da qui in poi gli interventi didascalici saranno quasi del tutto assenti, non ci saranno interruzioni di atto o di scena, i personaggi passeranno nel tempo di una battuta da una situazione all’altra e i luoghi del dramma saranno lasciati all’immaginazione del lettore.

Il testo si dipana inizialmente come un classico dialogo tra marito (Halldór) e moglie (Jóhanna). Ma già dall’arrivo di Daniel, l’amante di lei, intuiamo che qualcosa nei piani di realtà si sta confondendo. I personaggi infatti non entrano mai in scena, appaiono. E a volte si parla di loro come se fossero al trucco e aspettassero di esibirsi. Non si tratta però di meri espedienti meta teatrali: Jónsson è attento a restare sempre ambiguo, a non tracciare mai fino in fondo il confine tra finzione e realtà, dentro e fuori, così come non lascia capire immediatamente se alcune scene siano immaginarie – come quando i due amanti amoreggiano a pochi passi dal marito di lei – o se siano normali momenti nella vita dei personaggi, che a volte si accorgono degli altri, a volte si ignorano, a volte si esibiscono per il pubblico, a volte solo per sé stessi.

Mishap, regia di Chad Eric Bergman

Per esempio, quando i tre personaggi che fanno da contraltare al trio principale – Sverrir, Brynja e Rósa – raccontano al pubblico lo sciopero degli insegnanti, è in questo modo che presentano Jóhanna e la sua protesta:

BRYNJA: Yes, it’s safe to say that the strike threats made by the teachers don’t go down well with everyone. Yesterday a number of people received an e-mail from a young, stylish woman who claims her name is “Jóhanna” – 

JÓHANNA: My name is Jóhanna – 

BRYNJA: Your name is Jóhanna – 

JÓHANNA: That’s my name. 

BRYNJA: I see! To audience. Here’s the e-mail she sent – Waves the printout. Jóhanna calls for general protests in front of the parliament building later today. 

JÓHANNA interrupts: At noon – 

BRYNJA: Urging young and old to protest – at noon – the fact that elementary school children are suffering because of the battles between adults – 

JÓHANNA nervous stuttering: Let’s line up in front of the congress building… at twelve o’clock sharp… and express our position. Let’s show the authorities what we’re capable of! It’s sad to think the children in this country are being used as human shields in the strike…! See you downtown! 

RÓSA: Thanks for this. 

JÓHANNA: Thank you, thank you for having me.

I personaggi non escono mai da sé stessi — non si svelano mai palesemente come attori, benché qualche volta si diano indicazioni registiche e tengano in mano un copione — ma si muovono in questo spazio frastagliato, collegato coi tubi al mondo esterno, come se emergessero improvvisamente da un luogo alieno e altrettanto velocemente si tuffassero in una nuova situazione, un altro spazio, un altro dialogo. Sembrano tutti dentro un televisore su cui uno spettatore invisibile sta facendo zapping.

A un certo punto Jóhanna e Halldór si confrontano in un’intervista che la didascalia definisce «da reality show». Capiamo che c’è un baratro mal celato nella loro vita di coppia, quello che chiamano appunto un “mishap”, un contrattempo.
Ad aiutarci nello svelamento di questo abisso interviene Daniel, l’amante di Johanna, di professione psicologo. Molto spesso il personaggio dello psicologo (non ci azzardiamo a dire la psicologia in generale) è il campanello d’allarme di un testo mal scritto – o il “salto dello squalo” di un testo che non sapeva come risolversi. In questo caso Jónsson se la cava bene e riesce a evitare che l’analisi psicologica annacqui i chiaroscuri teatrali.
Grazie a Brynja, che glielo chiede esplicitamente, Daniel e Jóhanna rievocano il loro primo incontro nello studio di lui. La drammaturgia procede senza soluzioni di continuità: si passa da un notiziario per il pubblico che rende conto dello sciopero, a un dialogo intimo tra marito e moglie, alla preparazione di una ricetta insieme agli spettatori sullo stile dei programmi di cucina, al flashback in stile “prova di teatro” del primo incontro fra gli amanti. Questa fluidità è una delle caratteristiche migliori di Mishap! e costituisce l’origine della sua inafferrabilità.

Mishap, regia di Chad Eric Bergman

La rivelazione di cosa sia il fatale “contrattempo” ha origine da un’esigenza di Halldór. «Posso raccontare la storia», chiede agli altri, «questa cazzo di storia che tutti stanno aspettando?» Lo chiede a pagina 25 di 62. Jónsson è bravo a tenere alta la tensione verso il mistero narrativo, ma lo è altrettanto nel non indugiarci troppo e nel non farvi ruotare attorno l’intera drammaturgia. Non si ha, infine, quella sensazione di «Ah, così stavano le cose!» che danno certi testi torbidi nel momento in cui si svela il nocciolo traumatico del conflitto. E così, a nemmeno metà del testo, la coppia principale racconta qual è il mishap che ha inquinato irrimediabilmente la loro vita:

HALLDÓR: The story! I will tell the fucking story; the one everyone’s been waiting for! OK, the thing was… the thing was… 

RÓSA: Take your time.,, 

HALLDÓR: Yes – I was on my way north – 

JÓHANNA: Would you please – for me…? Not now – 

HALLDÓR: I was on my way north – 

RÓSA: Keep going. 

HALLDÓR to Jóhanna: I’m going to tell it! Continues where he left off. On my way north. Lots of traffic in both directions, really hard to concentrate on the driving. I’ve crossed the highlands and then I see this black BMW closing in on me at a deadly speed. It’s way behind me but overtakes several cars before cutting into the line again. I remember thinking: What a lucky shit, this guy…! Crazy, taking such a chance. Pause. I keep on driving. Then I feel like there’s something behind me and look into the rearview: The same BMW, except now the guy’s about to overtake all of us – as I remember it, there were seven or eight cars and I was somewhere in the middle of the line. And the guy comes up to my side. But when he’s about to pass me I see another car coming from the opposite direction and I say, out loud: Well, dude, whatcha gonna do now?! He tries to squeeze back into he line – straight in front of me! 

BRYNJA: What an asshole! 

RÓSA: Then what happened? 

SVERRIR: He’s been thinking of nothing but himself. Just typical for this society where we’re living. 

BRYNJA: Exactly. 

RÓSA: Then what happened? 

HALLDÓR: A car is headed towards us and the moron starts honking his horn! I don’t know, he probably wanted me to give way, as if that were the natural thing for me to do…! 

BRYNJA: This is incredible…! Just…! 

SVERRIR: Like a bullet in traffic! 

Pause. 

RÓSA: And then? 

HALLDÓR: I’d become furious, you see…? I was annoyed by this recklessness. 

SVERRIR: There’re tons of crazies out there who endanger themselves and others because they think they’re always in the right! 

HALLDÓR: If I’d stuck my arm out the window I could have touched the car – 

RÓSA: Was it that close? 

HALLDÓR: It was that close. 

RÓSA: Then what happened? 

HALLDÓR: This man has got himself into trouble, I thought; he must get himself out of it! Am I supposed to make way for him?! Why me? What about him? What’s he thinking?! 

JÓHANNA: You didn’t. 

HALLDÓR: Come again? 

JÓHANNA: I say: You didn’t make way for him. 

Pause. 

HALLDÓR: No. I didn’t. 

Silence.

RÓSA to Jóhanna: You know what happened…? 

Jóhanna nods.

HALLDÓR: She was there – 

JÓHANNA: We were on our way north – 

HALLDÓR: North, for our summer vacation! Our first vacation together. In September, imagine that; a summer vacation in September…! It had taken me years to get the office up and running, establishing contacts… 

JÓHANNA: My daughter was sitting in the back. 

RÓSA: How old is your daughter? 

JÓHANNA: She was seven, just turned seven. Silence. We hit the back of the car in front of us, she flew out… 

HALLDÓR explaining it further: The BMW squeezed in, ahead of the guy in front of us, at the last moment…! Jóhanna exits the set, walks out into the hall carrying the protest sign. The characters follow her with their eyes. I slammed my foot on the brakes! 

RÓSA: And that wasn’t enough? 

HALLDÓR: It wasn’t enough, unfortunately. He slowed down so quickly, the guy in front of us. We crashed into him. The airbag saved. Me and her. 

Pause. 

RÓSA: Halldór, I would like – following this – to ask you… do you believe you made a mistake…? 

HALLDÓR: You mean: Under the circumstances at the time and the premises I had…? 

RÓSA: Yes. 

HALLDÓR: No. Not a mistake. 

RÓSA: No mistake – 

HALLDÓR: It was a mishap. I was driving at a legal speed, I was in the right! 

RÓSA: Thank you. 

HALLDÓR: Thank you for listening. 

RÓSA: Thank you both, of course…! 

JÓHANNA: Yes. You’re welcome. 

Jóhanna is standing in the hall, confused… 

SVERRIR: Well: Now it’s all coming along nicely…! The oven is just about the right temperature, the leg and the vegetables in the pot… 

Proviamo a chiederci quale sia il tema di Mishap!. Innanzitutto c’è sicuramente la proiezione. Proiezione del sé e della coppia in un alter ego/alter nos che sembra quello delle soap opera televisive e che diventa per forza di cosa anche quello teatrale. Il testo è un continuo dentro-fuori dalla proiezione, appunto, più che dalla finzione: non è un gioco meta teatrale, né un lavoro sulla sincerità o sulla capacità mimetica dell’arte. Siamo di fronte, piuttosto, alla costruzione di fantasmi mentali, di personaggi che forse sono persone reali, forse ricordi, forse traumi passati, brandelli di possibilità che interagiscono direttamente con noi.
C’è una messa in scena del testo prodotta a Chicago che, a giudicare dalle foto, insiste molto esplicitamente sull’aspetto televisivo. Quel linguaggio – quello dei Masterchef, dei Grande fratello, dei Posto al sole etc. –, quella particolare accezione di proiezione, sono indubbiamente molto presenti, ma trovo che siano riduttivi rispetto alle possibilità del testo. Far sì che Halldór e Jóhanna, per esempio, possano essere infine i personaggi di una soap opera sarebbe soltanto una risposta al nostro bisogno di chiarezza, ma da un punto di vista registico si rivelerebbe un errore. Determinare in maniera univoca i rapporti tra le diverse proiezioni che si riverberano lungo il testo sarebbe una scelta infelice, perché dipanerebbe il delicato groviglio di incomprensioni che rende il testo pregnante.

Mishap, regia di Chad Eric Bergman

Per un altro verso il tema principale di Mishap! sono i figli. Il cartello che Jóhanna agita alla protesta contro lo sciopero degli insegnanti recita: “Prima i bambini”. Sta combattendo una lotta non sua, che sembra non essere seguita da nessuno — le due bizzarre persone che si presentano alla manifestazione stanno in realtà protestando per tutt’altro — e assomiglia più a un appello disperato e solitario per la figlia che non c’è più. Anche il conflitto nel trio secondario (Brynja sta con Sverrir che era l’ex di Rósa) ruota attorno a un figlio sballottato tra genitori separati, e sempre intorno ai bambini, come vedremo, ruota anche il finale. Eppure anche questo tema non diventa totalizzante e il fuoco del testo rimane sempre, fortunatamente, sfuggente.

Allo stesso modo la temperatura dell’opera non è facile da identificare. Durante gli intermezzi culinari il testo tende al comico, alla parodia, sembra avventurarsi in una sorta di grottesco televisivo, poi vira in un lampo verso il tragico, prende le tinte di un dramma da salotto alla Reza, ma cambia ancora, sembra ammiccare a un teatro surreale, fatto di incontri impossibili e personaggi fuori dal tempo, e poi ancora e ancora e può succedere che si avventuri, per esempio, in un inaspettato siparietto politico sulla guerra in Iraq. Questa ambiguità non suona mai come superficialità. Le varie sfumature di genere che attraversa il testo non sono, come potrebbe sembrare, belletti intorno all’indagine da “detective dell’anima” che ci guida nel passato dei personaggi, bensì abili stratificazioni drammaturgiche, architetture della complessità. Lo scavo psicologico nel passato dei protagonisti viene schivato con sapienza. 
Jónsson sa attingere nei momenti giusti alla sfera magica del teatro, sa quando è necessario confondere i simboli, quando non far tornare le cose affinché ne arrivino altre, di cose, più luminose. Il finale ne è un esempio. Dopo esserci accomiatati da quella che sembrava la coppia protagonista e dal loro cruento epilogo (erano personaggi televisivi? Fantasmi dei vecchi inquilini? Proiezioni dell’io?), quando crediamo di essere giunti alla classica cena da fine dramma – quella con i silenzi diversi, il suono delle posate insieme all’eco morente delle rivelazioni esplose – Jónnson fa emergere un oggetto inatteso. Sì, il finale ruota attorno a un oggetto di scena mai spuntato prima.
Sverrir dice di voler mostrare agli altri un «nice gadget» e lo fa come si mostrerebbe un nuovo stereo o un frullatore. Apparteneva ai precedenti proprietari, dice, e se lo si preme emette versi di bambini felici fuori da scuola. 
Lo preme. Ascoltiamo.
Brynja non riesce a sopportare quelle voci, che intanto crescono di volume. Si rivolge direttamente al tecnico del suono in regia e gli ordina di spegnerle. 
Silenzio, buio. 

Con questo passaggio fugace, un pugno di battute appena, Jónsson si smarca da una situazione che ricordava lo splendido Forza maggiore di Östlund, lasciandoci con un esotico sapore in bocca, qualcosa che potremmo chiamare “islandese”, ma che è forse solo lo stile peculiare e spiazzante di un autore che non conoscevamo.

Jacopo Giacomoni


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].