Era il 1991 quando, nella piccola cittadina di Cividale del Friuli, nacque il Mittelfest. Poco dopo il crollo dei regimi totalitari dell’Europa centro-orientale, all’indomani della caduta del muro di Berlino che aveva spaccato il vecchio continente, la classe dirigente friulana volle contribuire a ricomporre due entità contrapposte attraverso un dialogo all’insegna della cultura.
Da 28 anni, in una regione che storicamente si configura come terra di frontiera e cerniera con l’est Europa, il festival esplora la storia, le identità, le differenze fra questi popoli e si confronta costantemente con l’attualità.
La direzione artistica di Haris Pašović – pluripremiato regista di teatro e cinema originario di Sarajevo, oggi al secondo anno del suo mandato triennale – riafferma la vocazione multiculturale e il respiro internazionale del Mittelfest 2019 (12-21 luglio). E lo fa in un’Europa incline a chiudersi su se stessa, perciò Mittelfest che sta sì al confine, rappresenta tuttavia più un ponte che un muro.
Quest’anno ben dodici paesi indagano la natura della “leadership”, tema centrale della manifestazione: chi è oggi il leader? Che caratteristiche ha? In cosa si differenzia da un populista o da un dittatore?
Ventinove progetti artistici declinano il tema sfruttando musica, danza e teatro, e per dieci giorni invadono festosamente tutti gli spazi cittadini: non solo il teatro Ristori, ma anche chiese, musei, piazze, strade.
In particolare, il filone ellenico (la Grecia è l’ospite d’onore di questa edizione) può contare su performance che si interrogano sui limiti del potere umano. Il concerto-spettacolo Collina 731, interpretato da Aris Biniaris e Konstantinos Sevdalis, rievoca lo scontro del 1941 tra il piccolo esercito greco e la grande armata di Mussolini: la vittoria di Pirro riportata dall’Italia viene narrata attraverso canti e musiche dal ritmo incalzante per sottolineare l’escalation di violenza perpetrata da entrambi gli schieramenti. Il conflitto tragico portato in scena dall’Antigone di Kostantinos Ntellas non è meno efficace nel tratteggiare l’arroganza dell’uomo che intende affermare la propria individualità. Il Berliner Ensemble, invece, sceglie un classico del Novecento per intrecciare la sfera privata con quella pubblica: Il tamburo di latta del premio Nobel Günter Grass. L’interpretazione eccelsa di Nico Holonics, preciso e controllato, ma al contempo istrionico e brillante, tiene viva l’attenzione del pubblico raccontando la storia del piccolo Oskar, che battendo su un tamburo di latta tratteggia l’evoluzione della Germania nel primo Novecento, destinata alla distruzione dopo gli orrori compiuti dal nazismo.
Non manca, infine, uno sguardo ai leader africani: in Senza Sankara il regista Filippo Ughi dirige otto performer burkinabè per ripercorre – attraverso narrazione e folklore musicale – la parabola del presidente del Burkina Faso che tra il 1984 e il 1987 lottò per migliorare le condizioni di vita del suo popolo, ma venne assassinato. Nonostante alcune debolezze dello spettacolo a livello interpretativo, emerge con chiarezza la necessità di ripensare alle politiche scellerate che hanno determinato gli attuali rapporti di forza tra gli Stati e tra i continenti, soffocando ogni tentativo di sviluppo dell’Africa.
Nazionalità e linguaggi creativi diversi stimolano prospettive diverse, senza la presunzione di fornire risposte, ma con l’ambizione di suscitare interrogativi. Chissà che i forum di approfondimento (incontri collaterali al festival con autori, studiosi ed esponenti politici) non si trasformino in una fertile agorà dove gli spettatori-cittadini possano confrontarsi sulle questioni rimaste aperte. Perché solo dal beneficio del dubbio fiorisce l’attitudine al dialogo.
Nadia Brigandì