«Tu non ci fai paura!». Lo gridano circa cinquanta bambini coperti da una cerata gialla, guardando il pubblico dello spazio EstatOFF di Modena. Un urlo di sfida a un mostro marino incombente o il richiamo rivolto a noi, pubblico che si facciamo sempre più vicini? Non facciamo in tempo a domandarcelo; i bambini corrono via e sulla scena irrompe il Pequod. Si tratta di una nave-palcoscenico lunga dodici metri, concepita da Dino Serra, coadiuvato nella realizzazione da Massimo Zanelli. A bordo, una ciurma di decine di attori che, a ritmo, percuotono botti di legno dal diametro di due metri. A poppa suona una piccola band composta da sassofono, batteria e chitarra elettrica. Dieci uomini a torso nudo trainano la struttura tramite grosse funi di corda, fino a portarla al centro della scena. Al termine di una lunga coreografia di stampo circense al ritmo di una musica frenetica, tra acrobazie e danze sui trampoli uno dei marinai impugna un microfono ad asta e pronuncia le attese parole: «Chiamatemi Ishmael». Uno degli incipit più celebri della letteratura e, di conseguenza, tra i più difficili da portare in scena. Ma a Trasparenze Festival le sfide sono di casa. I marinai issano sul palcoscenico l’albero maestro, Achab entra in scena e annuncia al pubblico l’inizio della caccia alla Balena bianca. Moby Dick di Teatro dei Venti può cominciare.

(ph. Chiara Ferrin)

Appare subito chiaro che nonostante il “peso” letterario, a cui si aggiunge il fardello scenografico di quintali di legno e acciaio, lo spettacolo ideato da Stefano Té lasci alla fantasia la possibilità di librarsi fin dalle prime battute. Merito anche dell’adattamento di Giulio Sonno che opera sul testo di Melville una sistematica resezione, fino a lasciare soltanto ciò che suona universale, allusivo, allegorico, utilizzando anche brani dal Qoelet biblico e dal Faust di Goethe. Via dunque le dissertazioni sui cetacei e le baleniere, tanto care al romanziere americano, ma via anche il viaggio, l’avventura e anche l’effettivo scontro tra la il mostro marino e l’equipaggio del Pequod. Sono gli stessi marinai ad assemblare lo scheletro della balena all’interno della nave, come una gigantesca banderuola fissata all’albero maestro. Il Moby Dick di Sonno è un simbolo, un presagio sempre incombente, non qualcosa che si possa raggiungere (o da cui si possa scappare).

(ph. Lara Parmeggiani)

Harold Bloom scrisse ne Il canone occidentale che “Secondo Melville vi erano tre originali assoluti per i personaggi letterari: Amleto, Don Chisciotte e il Satana del Paradiso perduto. Achab ahimè, non era il quarto della serie, forse perché li racchiudeva tutti e tre”. L’ipotesi è certamente vera per l’Achab di Sonno: superomistico (“io sono demoniaco, la pazzia impazzita, ho osato ciò che ho voluto e ciò che ho voluto farò”), monomaniaco e attraversato da momenti di repentina disillusione (“che stupido vecchio è stato Achab, sono ancora io a sollevare questo braccio?”). Lo scheletro della balena diviene allora per lui uno smisurato teschio di Yorick da interrogare riguardo al valore della propria esistenza, ma anche una chimera, un gigantesco mulino a vento da combattere, un potere superiore contro cui rivoltarsi.

(ph. Chiara Ferrin)

In questa rilettura di Moby Dick, alla caccia “dell’utopia” di Achab (interna alla diegesi) corrisponde un’altra ricerca, questa volta metanarrativa: è quella concretissima del suo regista, Stefano Tè, anche direttore artistico del festival. Il Moby Dick di Teatro dei Venti sembra infatti voler condensare nei cinquanta minuti di spettacolo tutto ciò che abbiamo visto in quattro giorni di festival, esplorando ogni rotta tracciata in qui e spingendosi verso ciascuna con convinzione, a proprio agio perfino nel parossismo. Troviamo allora l’utilizzo e la coesistenza di differenti linguaggi espressivi: dalla danza alla performance, dal teatro di strada a quello di prosa, il tutto in un impianto da teatro lirico. C’è poi il nodo del coinvolgimento della comunità, quello che Tè definisce “il valore sociale, etico e politico del teatro”: lo si riscontra nella presenza in scena di persone che alla comunità civile appartengono, come bambini, anziani, detenuti e richiedenti asilo. C’è infine la commistione tra gesto artistico e gesto tecnico: gli attori sul palco vestono i panni di percussionisti, acrobati e operatori, trasformando nel corso dello spettacolo la monumentale scenografia, montando le vele, le sartie e gli alberi del Pequod, integrando pienamente i cambi di scena nell’azione teatrale.

(ph. Chiara Ferrin)

Moby Dick ha avuto una gestazione di ben tre anni, dal 2015 al 2018. Ne è emerso uno spettacolo profondamente bilanciato in tutti i suoi eccessi, capace di parlare e gestire più forme e dotato degli strumenti per smuovere i diversi immaginari. Così, quando nel finale lo scheletro della balena veleggia alle spalle degli attori schierati davanti al pubblico, lo si può quasi scambiare per un trofeo di caccia, un attestato di raggiunta utopia. Ma per conservarlo è indispensabile essere disposti a muoversi, a corrergli dietro, per non perderne le tracce.

Michele Spinicci


Moby Dick

ideazione e regia Stefano Tè
adattamento drammaturgico Giulio Sonno
Con Oksana Casolari, Marco Cupellari, Daniele De Blasis, Alfonso Domínguez Escribano, Federico Faggioni, Talita Ferri, Alessio Boni, Francesca Figini, Davide Filippi, Hannes Langanky, Alberto Martinez, Amalia Ruocco, Antonio Santangelo, Giovanni Maia, Mersia Valente, Elisa Vignolo
consulenza alla regia Mario Barzaghi
assistenza alla regia Simone Bevilacqua
direzione musicale Luca Cacciatore, Igino L. Caselgrandi e Domenico Pizzulo
costumi a cura di Teatro dei Venti, Luca Degl’Antoni e Beatrice Pizzardo
disegno luci Alessandro Pasqualini
audio Nicola Berselli
scenotecnica e realizzazione macchine di scena Dino Serra e Massimo Zanelli
scenografie Dino Serra in collaborazione con il Teatro dei Venti

Una produzione Teatro dei Venti, in co-produzione con Klaipeda Sea Festival (Lituania), con il sostegno della Regione Emilia Romagna, del Comune di Modena e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, con il contributo del Comune di Dolo (VE) in collaborazione con l’Associazione Echidna

Foto di copertina: Chiara Ferrin