La crisi, con tutti i problemi che ne derivano, è arrivata anche a Monticchiello, piccolo borgo toscano e frazione di Pienza. Sempre meno giovani, la disoccupazione, i primi immigrati e lo stato assente. Cosa fare?
L’autodramma della gente di Monticchiello, Notte di attesa, è la metafora di una soluzione e l’omaggio a una tradizione che compie quest’anno cinquant’anni. Mezzo secolo fa, Andrea Cresti ha deciso di non abbandonare il proprio borgo in cerca di un futuro migliore, ma ha cercato di costruirselo tra le mura e le vie del suo paese, dando l’opportunità a tutti gli abitanti di partecipare a questa grande opera. L’idea era quella di far nascere dibattito per confrontarsi e costruire insieme una nuova identità. E cosa meglio della rappresentazione di sé per farsi conoscere e narrare la propria storia? Ecco dunque che nasce la Compagnia popolare del Teatro Povero di Monticchiello, di cui Cresti è regista e direttore.
Girando tra le vie nel pomeriggio prima dello spettacolo si vede il palco smontato e le sedie impilate, poche ore dopo piazza della Commenda è irriconoscibile: il grande palcoscenico occupa la parte più bassa della piazza, gli spettatori, circa duecento, sono disposti a semicerchio sfruttando la pendenza naturale del borgo addossato alla collina, per cui la visuale è ottima da qualsiasi angolazione. Sul palco tutto è ricoperto da grandi teli bianchi che nascondono sagome e geometrie che man mano verranno svelate.
Entra un gruppo di cittadini che discute di problemi concreti e reali, la terra la casa il lavoro. Parlano e nel frattempo alzano i teli bianchi e costruiscono la scena: erigono il castello baluardo della loro protesta. Ma la notte è lunga. Iniziano le sommosse, i primi ripensamenti, c’è chi enfatizza la paura promuovendo il “medioevo del terzo millennio” e costruendo barricate e fossati attorno alle case. Lo stato della paura e la vittoria del silenzio. Ma col giungere del crepuscolo, la nebbia si dirada e si prospetta la rinascita, fatta di unione comprensione e ascolto. Cresti ci offre la soluzione, attraverso il proprio vissuto, ovvero fare a pezzi la propria gabbia e combattere – metaforicamente – il mondo.
Cinquant’anni di storia messi in scena attraverso un sunto positivo del bisogno di rappresentazione che ha spinto alla soluzione di una rinascita collettiva. Monticchiello è diventata farfalla grazie al teatro e alla partecipazione di tutti gli abitanti che ancora oggi hanno la volontà di salire sul palco, senza pretese o velleità artistiche, per dimostrare la partecipazione a un progetto che ha sancito la fine di una crisi, ognuno col proprio modo e i propri canoni attorali. Tutti vestiti in abiti borghesi, una signora ingioiellata, molti che parlano con uno spiccato accento, ma tutti sicuri che il pubblico, sia quello nuovo sia quello di affezionati, assiste a un pezzo di storia e, fondamentalmente, a un caso unico, quasi miracoloso di evento spettacolare. Ed è quasi commovente il momento in cui un attore, dopo aver finito la battuta, dichiara solennemente: “Questa battuta l’avevo detta anche 50 anni fa!” a ricordare la continuativa presenza scenica degli abitanti, che ancora lì, a Monticchiello, lottano attraverso il teatro.

Giulia Alonzo