Lidia Melegoni_redattrice di A critic mess!
Annalisa Limardi_spettatrice di My True Self.revisited e danzatrice allieva della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi
Maya Weinberg_coreografa di My True Self.revisited

LIDIA. So che My True Self è stato il primo spettacolo di Fattoria Vittadini. Ora, a distanza di anni ci viene riproposto in versione “revisited”. Come è nato e cosa è cambiato rispetto ad allora?

MAYA. La prima volta ero stata invitata dalla compagnia per lavorare su una coreografia non mia, è così che ci siamo incontrati. Come coreografa ho una mia estetica, ma per questo spettacolo sono partita da esercizi di improvvisazione che venivano innanzitutto dai danzatori. Il mio intento era quello di “provocare”, non solo nel senso classico, ma anche con lo scopo di creare una coreografia imprevedibile. Questo ha richiesto molta improvvisazione, molto lavoro con i video e una grande raccolta di materiali di vario genere. Solo in un secondo momento ho iniziato a comporre gli elementi in un progetto unitario, secondo la mia visione. La struttura dello spettacolo, per sua stessa natura, cambiava continuamente già in fase di costruzione, ma quando la compagnia mi ha richiamata e mi ha chiesto di portare My True Self nella propria retrospettiva, ho capito quanto effettivamente fossimo distanti da quel primo momento e dovessimo renderlo in modo diverso. Ero sorpresa che avessero voluto riproporre questo progetto, ma dopo aver visto i video e aver incontrato i ragazzi di Fattoria Vittadini ho ricordato che c’era qualcosa di magico nella nostra unione e mi ci sono buttata. Lo spettacolo è “revisited” perché tutto è cambiato e siamo cresciuti: io sono diversa, loro sono diversi, le interrogazioni che ci siamo posti sono più complesse. Abbiamo fatto nuove esperienze, conosciuto cose nuove. Abbiamo maggior distanza. Il nuovo titolo può essere interpretato anche in modo più ironico: cosa che nella prima versione, tanto più seria, non era concesso.

ANNALISA. Quello che mi ha colpita è il fatto che già nel primo spettacolo della compagnia emergesse una delle peculiarità di Fattoria Vittadini: in My True Self il gruppo funziona molto come collettivo. Ogni danzatore ha una sua individualità e soggettività, è forte a modo suo, e proprio per questo funziona anche nella totalità.

M. In effetti con loro viene naturale lavorare per far emergere la singolarità nel gruppo. Un’immagine semplice dello spettacolo che può riassumerne il DNA, e al contempo descrivere l’essenza di Fattoria Vittadini, è quella dei post-it gialli appiccicati sulla parete bianca che facevano da sfondo alla performance: etichette diverse ammassate in un punto.

L. È stato semplice conciliare il DNA di Fattoria Vittadini con la tua visione?

M. Quando li ho incontrati ho pensato subito che il loro essere gruppo fosse una caratteristica molto forte e ben presente. Però credo che un gruppo di persone che fanno tutte la stessa cosa, alla lunga, possa annoiare. Io cerco qualcosa di diverso e, infatti, le caratteristiche individuali della compagnia rispondono perfettamente alla mia domanda, alla volontà di esplorare la singolarità di ognuno.

A. In fondo lavorare in gruppo vuol sempre dire essere un organismo unico frutto di tante individualità. Questo è difficile perchè richiede un grandissimo ascolto e una continua ricerca di equilibrio tra te e gli altri, ma allo stesso tempo è un lavoro dentro te stesso: è un bilanciamento tra interno e esterno. Il gruppo implica la particolarità molto più di quanto siamo abituati a credere.

M. Vorrei aggiungere che il punto dello spettacolo, oltre ad essere se stessi con gli altri, è l’essere speciali nell’essere se stessi. Per un artista la questione si complica: esibirsi sul palco vuol dire creare un personaggio, cercare di essere qualcun altro nel proprio corpo. E allora ti chiedi quanto il tuo vero te stesso ti appartenga, quanto sia determinato dalla cultura, quanto tu possa cambiarlo, quanto gli altri possano cambiarlo. Ho lavorato sull’idea della socialità e insieme della singolarità, ma ero interessata anche a una ricerca più astratta.

L. Nella parte iniziale dello spettacolo, ho percepito una gradualità nel lasciarsi completamente andare dei personaggi, forse proprio a causa dell’inibizione causata dalla scena. Mi sembrava ci fosse più meccanicità, meno umanità. Il gruppo cercava di muoversi unitariamente, ma qualcosa non funzionava. Nella seconda parte questo meccanismo imperfetto si è liberato dei suoi vincoli: lì sono esplose le performance individuali dei danzatori. Se all’inizio una voce fuori campo, fredda e meccanica, “dettava” le caratteristiche di ognuno e diceva ciò che ciascuno era, è stato solo quando i danzatori hanno espresso con il corpo queste parole che mi è parso di vedere il loro vero sè.

M. Quella voce fuori campo di cui parli è una raccolta di testi, l’abbiamo resa meccanica perchè volevamo fosse una sorta di manifesto. Doveva essere incisiva. I testi, nelle mie coreografie, hanno un senso che spesso è strettamente legato al contesto in cui vengono eseguiti. In questo caso sono stati effettivamente pronunciati dai danzatori durante il processo e hanno contribuito alla creazione del tutto. Io volevo, diversamente da quel che hai avvertito, che l’inizio dello spettacolo fosse il primo passo che desse il via alla performance conferendole una certa atmosfera sin da subito. Non ho pensato a calibrare la gradualità con cui ci si sarebbe immersi in questa atmosfera. È sempre interessante scoprire come luci, effetti, musiche e citazioni possano aggiungere significato a quel che ciascuno vede e rendere ogni interpretazione così particolare!

A. Infatti io ho avuto una percezione del tutto diversa. Mi è piaciuto molto l’inizio, soprattutto il fatto che i danzatori fossero già in scena prima che il pubblico si sedesse. Non ci stavano ancora dimostrando niente, si muovevano appena, ma erano sotto i nostri occhi all’unisono. Proprio perchè facevano qualcosa insieme, li guardavi a uno a uno e capivi che c’era qualcosa di impercettibilmente diverso in ognuno, la posizione dei piedi, gli sguardi, le dita. Man mano che aspettavi che tutti gli spettatori entrassero e si sedessero, avevi il tempo di fare come una sorta di “scanner” a queste persone, che si presentavano a te come collettività, ma erano già singolarità. La cosa si è evoluta quando improvvisamente una delle danzatrici si è mossa in modo diverso e ha iniziato a emergere. Trovo che per tutto lo spettacolo si sia ripetuto, variato, questo primo movimento.

L. Nella ricerca di My True Self è evidente la ricerca di un certo rapporto con lo spettatore, spesso come tentativo di provocazione. Il pubblico è cambiato rispetto alla prima volta che avete messo in scena lo spettacolo?

M. Poichè non sono italiana, non so dire precisamente che cosa sia cambiato qui. Ma io ho potuto acquisire una prospettiva molto ampia, continuando a occuparmi di danza in luoghi di volta in volta diversi. Ogni volta la prospettiva dei pubblici è differente, ma per me è sempre importante creare una connessione, come un collegamento tra la finzione, la bolla conchiusa in se stessa che è lo spettacolo, e la realtà, la vita che si svolge al di fuori di questa bolla. Ogni volta che si svolge una ricerca sulla singolarità, come abbiamo detto prima, c’è un parallelo tentativo di conversazione che si sviluppa in tutte le direzioni, anche verso il pubblico.

A. Nel finale dello spettacolo i danzatori si dirigono, in un respiro comune, verso l’angolo della parete, dove sono attaccati i post-it. Si dispongono in successione, legati uno con l’altro, ma tre di loro improvvisamente si staccano dagli altri. Mi chiedevo perchè abbiano bisogno di questa separazione finale dopo la complicità che si era creata.

M. In realtà è semplicemente un finale possibile, un bel quadro con cui concludere il tutto. Non significa qualcosa in particolare. Penso che questo lavoro venga destrutturato e ricostruito continuamente sotto gli occhi del pubblico durante il suo svolgersi. Volevo mantenere questa caratteristica fino in fondo, perciò non ho concluso lo spettacolo in modo chiaro e pulito, ad esempio attaccando il telefono [il principale elemento scenografico dello spettacolo è un telefono a muro al centro della parete. Alla fine della performance, la cornetta del telefono, che era stata variamente utilizzata in precedenza, viene lasciata penzolare senza essere appesa, senza quindi “chiudere” la chiamata ndr]. Mi serviva qualcosa che continuasse a muoversi, che lasciasse aperto il finale: quei danzatori si stanno muovendo in direzione di una nuova ricerca.

a cura di Lidia Melegoni

My True Self.revisited
coreografia di Maya Weinberg
con Chiara Ameglio, Cesare Benedetti, Noemi Bresciani, Pieradolfo Ciulli, Maura Di Vietri, Riccardo Olivier, Francesca Penzo, MariaGiulia Serantoni, Vilma Trevisan
visto il 12 ottobre _Teatro Elfo Puccini nell’ambito della rassegna MilanOltre